di Giuseppe Bonaccorsi
Con: Ralph Fiennes, Vanessa Redgrave, Gerard Butler, Jessica Chastain, Brian Cox, James Nesbitt,

Ralph Fiennes porta al cinema “Coriolano”, tragedia, o dramma storico, dalla penna di William Shakespeare, datata tra il 1607 e il 1608.
L’attore, protagonista e anche regista del film, porta l’opera al cinema mantenendo intatto il copione originale (a parte qualche taglio necessario) ma ambientandolo nella modernità, sostituendo messaggeri e araldi con telegiornali e breaking news. Solitamente non amo questo genere di esperimenti, ad esclusione di poche eccezioni come il film oggetto del post: una era ad esempio “Le Baccanti” di Euripide, per la regia di Luca Ronconi, messa in scena al teatro greco di Siracusa nel 2001, con le sole guardie che indossavano la mimetica militare odierna. Un’altra sullo stesso stile è il film per la TV “King Lear”, con Anthony Hopkins, del 2018, con il testo originale e gli abiti moderni.
Fiennes propone un adattamento simile con il suo Coriolano; non stupisce vedere sempre più adattamenti di opere del Bardo ambientate in tempi diversi, poiché ciò che egli narra ha spesso valore universale, va al di là del tempo (e anche del luogo), rappresenta l’umano con i suoi pregi e le sue debolezze e, oltre questo, conflitti che si ritrovano identici in ogni epoca storica.
SINOSSI
Il protagonista dell’opera originale è il generale romano Caio Marzio, uomo dalle spiccate contraddizioni, come si dirà meglio in seguito.
La storia è ispirata dalle “Vite Parallele” di Plutarco, il quale mette a confronto due condottieri contemporanei, entrambi del V sec. a.C. sebbene molto differenti, praticamente l’uno l’opposto dell’altro: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle, una democrazia già matura ai tempi, e lui stesso, pur facendo parte dell’aristocrazia, cerca il favore del popolo per la legittimazione personale a governare.
Caio Marzio, per contro, vive nella neonata repubblica romana, ancora acerba, dopo la cacciata dei re etruschi (i Tarquinii): il generale disprezza apertamente il popolo e se potesse non lo considererebbe nemmeno, e men che mai per una legittimazione al governo.
Tra gli altri spunti di ispirazione del drammaturgo vi è sicuramente l’opera “Ab Urbe Condita” di Tito Livio, sicuramente per l’introduzione del personaggio di Menenio Agrippa, autore del famoso discorso in cui paragona il Senato e il popolo romano al corpo umano, discorso non presente nel dramma, ma che spiega bene i tumulti imminenti.
«Una volta, le membra dell’uomo ritenendo lo stomaco ozioso discostarono da lui e disposero che le mani non portassero cibo alla bocca né che la bocca dovesse accettarlo né che i denti dovessero masticare. Ma, nel momento in cui intesero di dominare lo stomaco, pure esse stesse soffrirono e l’intero corpo giunse a un

deperimento estremo, di qui, si palesò che il compito dello stomaco non è affatto essere nullafacente, ma, dopo avere accolto i cibi, di redistribuirli in virtù di tutte le membra. E esse ritornarono in amicizia con lui. Così, il senato e il popolo romano in quanto sono un unico corpo, con la discordia periscono con la concordia gioiscono.»
In questo contesto il popolo, che aveva avuto il grano distribuito gratuitamente, insorge per l’improvviso arresto della distribuzione, e incolpa Caio Marzio.
Il generale, uomo valoroso ma aspro e iracondo, incapace di un dialogo, all’approccio diplomatico preferisce urlare in faccia alla plebe che se non ha il grano è perchè il popolo è inerte, passivo, sostanzialmente buono a nulla, e perchè non ha servito l’esercito e dimostrato alcun valore.
Nonostante gli scontri interni a Roma tra patrizi e plebei, Caio Marzio continua a dimostrare il suo valore sul campo in più battaglie contro i Volsci, ingaggiando anche uno scontro personale infinito con il condottiero dell’esercito opposto Sullo Aufidio, ritenuto “nobile” cioè degno di misurarsi con lui, e a riportare grandi vittorie: la più importante tra queste fu la presa della città nemica di Corioli, da cui il soprannome “Coriolano”.
Il generale, educato severamente alla guerra sin da ragazzino, vuole dimostrare il suo valore ma rifugge gli onori, non propriamente per virtù, ma perchè non vede il valore di coloro che dovrebbero attribuirglieli.
“Preferirei dover rimettermi a curare le mie ferite piuttosto che sentir raccontare come le ho ricevute!”
E’ la tragedia delle contraddizioni, della virtù e del valore che sfociano nella superbia e nel disprezzo degli altri, nell’arroganza e, infine, nella scarsa percezione di sé stesso che sarà la sua stessa rovina.
“Preferirei farmi grattare la testa al sole quando fosse suonato l’allarme, che stare qui pigramente a sentir magnificare come prodigi i miei nonnulla”
Dopo la vittoria riportata in guerra, Coriolano, sempre più controvoglia, viene convinto dalla madre a candidarsi per la carica di Console, e persuaso, con ancora più fatica, a chiedere la necessaria acclamazione dal popolo, quale ratifica della sua elezione.
Il mondo delle parole, delle “lingue velenose”, non si addice però a Coriolano. “Piuttosto che fare il buffone a questo modo, vadano l’alta carica e l’onore a chi ci
si adatta!”
Mentre Coriolano si avvia a chiedere l’acclamazione del popolo, in alta uniforme da generale, viene provocato dai due Tribuni della Plebe, oggi due politicanti a caso, e il militare si lascia andare a alle solite dichiarazioni sprezzanti, rincarando anche la dose sul fatto che il popolo non può governare e che un atteggiamento troppo permissivo consentirebbe “ai corvi di prendere a beccate le aquile”.
Il generale, caduto nella provocazione viene quindi esiliato, e, solo per ottenere vendetta si reca dal nemico di sempre, Aufidio, e gli offre la sua spada.
Aufidio accetta Caio Marzio e gli affida il comando di metà del suo esercito, nuovamente mosso contro Roma: i due alleati riescono a prendere varie città vicine e ad ottenere vittorie importanti.
Roma, preoccupata, manda una delegazione composta da Volumnia, la madre di Coriolano, la moglie e il piccolo figlio, i quali lo supplicano di desistere dalla sua vendetta.
VOLUMNIA
Restassimo mute e senza parola, queste vesti e questi corpi direbbero quale vita
abbiamo fatto dopo il tuo esilio.
Pensaci, siamo venute qui
le più sventurate delle donne.
Perché la tua vista, che dovrebbe
riempirci gli occhi di gioia,
e far danzare i cuori di felicità,
li forza a piangere e tremare di paura e dolore, mostrando alla madre, alla moglie, al figlio,
il figlio e il marito e il padre che strappa
i visceri alla propria terra. E a noi povere
la tua inimicizia è più mortale.
Tu c’impedisci di pregare gli dei,
conforto di tutti, e non nostro. Perché
come possiamo, ahimè, come possiamo pregare per la patria, com’è nostro dovere,
e simultaneamente per la tua vittoria
com’è nostro dovere? Ahinoi, o dobbiamo perdere la patria, nostra cara nutrice,
o te, nostro conforto nella patria.
Andiamo incontro a una sciagura certa,
anche se potessimo decidere chi vince.
O tu dovrai essere spinto in catene
per le nostre vie come un traditore,
o pesterai trionfante le rovine della patria
e avrai la palma per aver versato
da prode il sangue di moglie e figlio.
Quanto a me, figlio mio,
io non intendo vedere come la fortuna
farà finire questa guerra. Se non potrò convincerti a fare nobile grazia alle due parti piuttosto che spegneme una, non appena
muovi all’assalto del tuo paese non potrai
– credimi, non lo potrai – che pestare coi piedi
il ventre di tua madre che ti portò
al mondo.

Caio Marzio accetta e firma con Roma un trattato di pace molto vantaggioso per i Volsci, ma quando torna da Aufidio, questi lo fa uccidere perché lo ritiene una figura troppo ingombrante.
“…e io rinascerò nella sua caduta.”
L’ultima battuta di Caio Marzio Coriolano, rivolta a Tullo Aufidio e ai Volsci dopo l’accusa di tradimento, prima essere ucciso:
CORIOLANO
Fatemi a pezzi, Volsci. Uomini e ragazzi, insanguinate di me tutte le vostre lame. “Frignoncello”! Cane bugiardo! Se nei vostri annali avete scritto la verità,
c’è scritto che come un’aquila in un colombaio ho scompigliato i vostri a Corioli.
Lo feci da solo. “Frignoncello”!
“Coriolanus” racchiude in sé più spunti drammatici: uno personale e uno di natura sociale.
Da una analisi personale emerge un condottiero pieno di contraddizioni: è stato addestrato a combattere fin da ragazzino, ma non è un politico, non ha la capacità di mediare, sa lottare e rigetta gli onori, non è propenso a narrare le proprie imprese (piuttosto che narrare le sue ferite in battaglia preferirebbe doverle rifasciare) eppure, per definirsi ha bisogno degli altri come termine di paragone, che sia la plebe che tanto disprezza o avversari che ritiene degni del suo stesso valore come Aufidio, tanto che più di un critico osservò che in fondo “il nobile Aufidio” è un’invenzione di Coriolano.
È stato definito un dio della guerra, ma anche un bambino troppo cresciuto per quanto sottomesso alla figura materna, l’unica che lo farà vacillare spingendolo a chiedere la necessaria acclamazione dal popolo, che non avrà, o che lo farà desistere dalla sua vendetta verso Roma.
Dopo che Coriolano stipula un trattato di pace tra i Volsci e Roma vantaggioso per i Volsci, lo stesso Aufidio, condottiero dei Volsci, che accolse a braccia aperte l’esule condottiero romano, lo metterà a morte per tradimento; un pretesto ritenendo la sua figura troppo ingombrante già da un po’ e affermando che lui stesso “rinascerà nella sua caduta”.
In questi termini il “Coriolano” è la tragedia della virtù che porta alla superbia e anche alla falsa rappresentazione di sé.
Sul piano sociale la vicenda di Marzio “Coriolano” assume anche le forme di una lotta di classe, quella tra Patrizi e Plebei nell’ambientazione originaria, quella tra
popolo e “classe dirigente” nell’ambientazione del film in epoca a noi contemporanea.
Molti, tra i quali Tolstoj, accusarono Shakespeare di essere di parte, a favore dei Patrizi, perché la plebe o il popolo si farebbero manipolare troppo facilmente.
In realtà ciò che emerge dalle sue opere, tenendo presente anche in questa chiave il discorso di Marco Antonio nel “Giulio Cesare”, è solo l’antipatia del Bardo per il cinismo della politica, per coloro che cercano in ogni modo di manipolare le folle traendone un tornaconto personale, e al contempo una simpatia, o meglio empatia, per persone schiette e sincere, le quali, pur con un caratteraccio e con idee malsane per le quali si spingono a pagare il prezzo più caro, dicono ciò che pensano senza mezzi termini.
Nella prima scena del terzo atto, dopo che Coriolano è stato eletto console, ha bisogno della “ratifica” da parte della plebe: a questo punto viene provocato dai due Tribuni della plebe che lo incalzano portandolo a dichiarazioni con le quali lo accuseranno di tradimento e lo condanneranno all’esilio da Roma.
Il militare non è un politico e, provocato, cade nel tranello sino ad affermare che un atteggiamento troppo condiscendevole nei confronti della plebe, verso la quale mostra costantemente il suo disprezzo, permetterebbe “ai corvi di beccare le aquile” in Senato.
E, come se ciò non bastasse, invita i Patrizi a riprendersi il loro posto e la possibilità di governare sul popolo senza ascoltarlo, poiché questo non ha alcuna esperienza e va dominato.
Viene quindi immediatamente accusato di tradimento da Bruto e Sicinio, i due Tribuni della plebe.

Qui sotto la prima scena integrale, senza tagli, del terzo atto della tragedia.
ATTO TERZO – SCENA PRIMA
Suono di cornette. Entrano Coriolano, Menenio, tutti i patrizi, Cominio, Tito Larzio e altri senatori
CORIOLANO
Allora Tullo Aufidio ha un nuovo esercito?
LARZIO
Sissignore, ed è questo che ci ha spinti
ad affrettare l’accordo.
CORIOLANO
Sicché ora i Volsci sono forti come prima,
pronti, quando glielo dirà l’occasione,
ad attaccarci di nuovo.
COMINIO
Sono sfiancati, Console.
Sinché vivremo sarà molto difficile
veder sventolare ancora le loro bandiere.
CORIOLANO
Hai visto Aufidio?
LARZIO
Sì, venne col salvacondotto, e malediva i Volsci per aver mollato la città
da veri vigliacchi. Ora
si è ritirato ad Anzio.
CORIOLANO
Ti ha parlato di me?
LARZIO
Sì, Console.
CORIOLANO
Come? Che ha detto?
LARZIO
Dei vostri scontri frequenti, spada a spada. Che ti odia sopra ogni cosa al mondo,
e impegnerebbe i suoi beni
senza speranza di riaverli, pur di potere chiamarsi tuo vincitore.
CORIOLANO
E vive ad Anzio?
LARZIO
Ad Anzio.
CORIOLANO
Avessi un motivo per andarvi a cercarlo
e misurarmi in pieno col suo odio!
Ma bentornato a casa.
Entrano Sicinio e Bruto
Guardali, i tribuni del popolo,
le lingue della sua bocca. Li disprezzo
così bardati di un prestigio che un nobile non può sopportare.
SICINIO
Non andare oltre.
CORIOLANO
Cioè a dire?
BRUTO
Sarà pericoloso andare oltre. Fermati. CORIOLANO
Che novità è questa?
MENENIO
Spiegatevi.
COMINIO
Non è stato eletto dai nobili e dai plebei? BRUTO
No, Cominio.
CORIOLANO
Ho avuto voti di bambini?
I SENATORE
Tribuni, fateci passare. Deve andare al Foro. BRUTO
Il popolo è infuriato contro di lui. SICINIO
Fermatevi
o finirà in tumulto.
CORIOLANO
È questo il vostro gregge?
Vogliono il diritto di voto questi che ora lo danno
e subito se lo rimangiano? E voi che ci state a fare? Siete la bocca, perché non frenate i denti?
O li avete aizzati voi due?
MENENIO
Calmo, calmo.
CORIOLANO
È una manovra, un complotto
per piegare i nobili. Tolleratelo, e vivrete
con chi non sa governare e non si farà
governare mai.
BRUTO
Non parlare di complotto.
La gente grida che li hai presi in giro,
e che di recente, quando ebbero il grano
gratis, ti sei lamentato e hai calunniato
chi intercedeva per loro, chiamandoli
opportunisti, adulatori, nemici dei patrizi. CORIOLANO
Ma questo già si sapeva.
BRUTO
Non da tutti.
CORIOLANO
E quindi tu li hai informati?
BRUTO
Io? Informarli?
COMINIO
Sei tagliato per quel mestiere.
BRUTO
No, ma farei
il vostro meglio di voi.
CORIOLANO
E allora perché farlo io
il console? Per gli dei! Dammi tempo
di demeritare come te, e fammi
tuo collega.
SICINIO
Tu mostri fin troppo
ciò che agita il popolo. Se vuoi arrivare
dove vuoi, devi chiedere la strada,
la strada che hai smarrita, con più gentilezza,
o non sarai mai nobile come dev’essere un console,
né tribuno accanto a lui. MENENIO
Stiamo calmi.
COMINIO
Il popolo è ingannato, è sobillato. Questo tira e molla non è degno di Roma,
e Coriolano non ha meritato un intoppo così sleale e vergognoso posto
sulla via libera dei suoi meriti. CORIOLANO
Viene
a parlarmi del grano! Ho detto quelle cose e le ripeto… MENENIO
Non adesso, non adesso. I SENATORE
Non così a caldo, Marzio. CORIOLANO
Adesso, per la mia vita.
Ai miei amici più nobili chiedo perdono. Quanto alla folla volubile e puzzolente,
si renda conto che non sono un adulatore,
e si riconosca in ciò che dico. Ripeto
che, a secondarla, nutriamo contro il Senato la malerba del dissenso, dell’insolenza,
della sedizione per cui
noi stessi abbiamo arato, noi stessi l’abbiamo seminata e diffusa
mescolando loro con noi gente d’onore
cui non difetta il coraggio, no, né il potere tranne quello ceduto a degli straccioni. MENENIO
Ora basta.
I SENATORE
Non dire altro, ti preghiamo.
CORIOLANO
E perché?
Ho versato sangue per la patria senza temere la forza del nemico, e ora i miei polmoni finché non marciscono conieranno parole contro la lebbra di cui temiamo le croste,
ma abbiamo fatto di tutto per prenderle. BRUTO
Tu parli del popolo
come se fossi un dio che punisce, e non
un uomo imperfetto come loro.
SICINIO
È bene
che il popolo lo sappia. MENENIO
Ma cosa, cosa?
Che si è arrabbiato? CORIOLANO Arrabbiato!
Fossi calmo come il sonno di mezzanotte resterei della mia idea, per Giove! SICINIO
È un’idea
velenosa. Deve restare dov’è e non avvelenare altri. CORIOLANO
“Deve restare”!
Ma lo sentite, questo
Tritone tra le sardine! Notate il suo
perentorio “deve”?
COMINIO
È un abuso.
CORIOLANO
“Deve”!
O buoni ma molto incauti patrizi! E voi
gravi e imprudenti senatori, perché
permettere qui a quest’Idra di scegliersi
un capo che col suo perentorio “deve”,
lui che non è che il corno e lo strepito del mostro, ha il coraggio di dire che devierà il vostro fiume in una fossa, e farà suo il vostro letto?
Se lui ha fi potere, allora umiliate
la vostra trascuratezza. Se non ne ha,
svegliate la vostra pericolosa acquiescenza.
Se siete saggi non siate
come i comuni sciocchi; se non lo siete
fateveli sedere accanto. Siete voi i plebei
se essi sono i senatori; e non sono di meno
se, mescolate le voci, il tono che vince
ha il loro accento. Si scelgono un magistrato,
e un tipo tale che contrappone il suo “deve”,
il suo “deve” plebeo a un’adunanza più degna
di quelle arcigne della Grecia. Costui,
per Giove sommo, svilisce i consoli!
E il mio animo s’addolora
perché sa che quando si comanda
in due con uguale potere, ben presto
il caos s’intromette e adopera
l’uno per distruggere l’altro.
COMINIO
Su, andiamo al Foro.
CORIOLANO
Chiunque abbia dato il consiglio di distribuire
gratis il grano dei magazzini, come
si usò a volte in Grecia…
MENENIO
Andiamo, andiamo,
non parliamone più.
CORIOLANO
Ma lì la plebe
aveva più potere – dico che costoro
hanno nutrito la disubbidienza, hanno
alimentato la rovina dello Stato.
BRUTO
E il popolo dovrebbe
votare uno che parla così?
CORIOLANO
Io dirò
ciò che penso, e che vale
più dei suoi voti. Il popolo sa che il grano
non era la nostra ricompensa: i plebei, era noto,
non avevano fatto nulla. Arruolati
per la guerra, proprio quand’era in pericolo
il cuore dello stato, non vollero
neanche uscire dalle porte. E questo
servizio non meritava il grano gratis. In guerra ammutinamenti e rivolte in cui
furono assai valorosi, non parlarono
di certo a loro favore. L’accusa
che spesso hanno fatto contro il Senato
e senza motivo, non poteva originare
un dono così generoso. Bene, e allora?
Come interpreterà questo milleteste
la munificenza del Senato? Il loro agire
esprime le loro probabili parole:
“Abbiamo fatto una richiesta, siamo la maggioranza, e certo ci hanno accontentati per paura”.
Così degradiamo la natura delle nostre funzioni,
e spingiamo la marmaglia a chiamare paura
la nostra sollecitudine. Questo, col tempo,
sfonderà le porte del Senato e farà entrare
i corvi a beccare le aquile.
MENENIO
Via, basta.
BRUTO
Sì, basta e avanza.
CORIOLANO
No, c’è dell’altro.
E tutto ciò su cui si può giurare,
divino o umano, sigilli la mia conclusione! Questa doppia autorità, dove una parte disprezza con ragione, e l’altra
insulta senza ragione alcuna, dove la nascita, il rango, l’esperienza, non possono decidere se non col sì e col no dell’insipienza plebea, si trova costretta a trascurare i bisogni reali, dando spazio intanto a effìmeri perditempi. Ogni scopo è impedito, e ne segue
che tutto è fatto senza scopo. Perciò vi prego – voi che volete essere più oculati che pavidi,
voi che tenete alle basi salde dello stato
e non avete paura di migliorarle, voi
che a una lunga vita preferite una vita nobile,
e siete pronti a rischiare una cura pericolosa
su un malato che altrimenti è certo di morire – strappatela subito questa lingua brulicante,
non fate che lecchino il dolce che è il loro veleno. Il vostro disonore mutua la giustizia,
ruba allo stato l’integrità che gli è propria, dacché non può fare il bene che vorrebbe per il male che lo domina.
BRUTO
Ha detto abbastanza.
SICINIO
Ha parlato da traditore e ne risponderà come i traditori. CORIOLANO
Disgraziato, la bile nera ti consumi!
Che bene può venire al popolo
da questi tribuni pelati? Si affìdano a loro
e smettono di obbedire a una dignità più alta.
Furono eletti in una rivolta, quando
non era legge la giustizia ma la forza maggiore.
In un momento migliore affermiamo ora
che ciò che è giusto è giusto che sia fatto,
e il loro potere buttiamolo nella polvere.
BRUTO
Tradimento lampante!
SICINIO
Costui console? No!
BRUTO
Gli edili, qui!
Entra un edile
Arrestatelo.
SICINIO
Chiama il popolo. (Esce Pedile) Nel suo nome io stesso ti arresto come traditore ribelle,
nemico della repubblica. Ubbidisci, te l’ordino,
e seguimi per rispondere dell’accusa. CORIOLANO
Via, vecchio caprone!
I PATRIZI
Noi garantiamo per lui. COMINIO
Giù le mani, vecchio. CORIOLANO
Vattene, carogna! O ti faccio saltare le ossa dai tuoi stracci.
SICINIO
Aiuto, cittadini!
Entra una folla di plebei con gli edili MENENIO
Dalle due parti, più rispetto! SICINIO
Ecco l’uomo che vuole togliervi ogni diritto. BRUTO
Arrestatelo, edili!
PLEBEI
A morte, a morte!
II SENATORE
Armi, armi, armi!
Tutti sazzuffano attorno a Coriolano TUTTI (con grida confuse)
Tribuni! Patrizi! Cittadini! Ehi!
Sicinio! Bruto! Coriolano! Cittadini!
MENENIO
Calma, calma, calma! Un momento, fermi, calma! Ma che cosa succede? Sono senza fiato.
Qui si va all’anarchia. Non riesco
a parlare. Voi tribuni, parlate voi
al popolo – Coriolano, pazienza -!
Parla tu, buon Sicinio.
SICINIO
Cittadini, ascoltatemi. Silenzio!
I PLEBEI
Ascoltiamo il nostro tribuno. Zitti! Parla, parla, parla. SICINIO
Siete sul punto di perdere i vostri diritti.
Marzio vuole togliervi tutto, Marzio
che avete appena nominato console.
MENENIO
Ma no, no, no!
Così attizzi il fuoco, non lo spegni.
I SENATORE
Così abbatti la città, la radi al suolo.
SICINIO
Che cos’è la città se non il popolo? I PLEBEI
Giusto,
il popolo è la città.
BRUTO
Col consenso di tutti siamo stati insediati rappresentanti del popolo.
I PLEBEI
E lo restate.
MENENIO
E questo è evidente.
COMINIO
Ma questo è il modo di abbattere la città, di tirare giù il tetto sulle fondamenta,
di seppellire
tutto ciò che è ancora ordine e rango
sotto mucchi e ammassi di rovine.
SICINIO
Quell’uomo merita la morte.
BRUTO
Ci sosteniamo la nostra autorità
o la perdiamo. Noi qui, in nome del popolo in virtù del cui potere fummo eletti
suoi tribuni, dichiariamo che Marzio
merita una morte immediata.
SICINIO
Quindi arrestatelo:
portatelo alla rupe Tarpea e gettatelo
di lassù, che muoia.
BRUTO
Prendetelo, edili.
PLEBEI
Arrenditi, Marzio, arrenditi.
MENENIO
Sentite una parola,
vi scongiuro, tribuni, una parola.
EDILI
Silenzio, silenzio!
MENENIO (a Bruto)
Sii come sembri, vero amico della tua terra, e procedi con moderazione a quanto
vuoi raddrizzare così con la violenza. BRUTO
Menenio, questi modi freddi
che paiono rimedi prudenti, sono mortali quando il male è violento. Su, afferratelo, portatelo alla rupe.
Coriolano sfodera la spada
CORIOLANO
No, morirò qui.
Qualcuno di voi m’ha visto combattere.
Avanti, provate su voi ciò che m’avete visto fare, MENENIO
Metti via quella spada! Tribuni,
allontanatevi un momento.
BRUTO
Arrestatelo.
MENENIO
Aiutate Marzio, aiutatelo,
nobili, aiutatelo, giovani e vecchi!
I PLEBEI
A morte, a morte!
Nella mischia i tribuni, gli edili e il popolo sono respinti MENENIO
Su vattene a casa! Vattene, presto!
O tutto è perduto.
II SENATORE
Vattene.
CORIOLANO
Tenete duro!
Abbiamo altrettanti amici che nemici.
MENENIO
Si deve arrivare a questo?
I SENATORE
Gli dei non vogliano!
Ti prego, nobile amico, a casa, a casa.
Lascia a noi il rimedio a questo guaio.
MENENIO
È una piaga che abbiamo addosso e che tu
non puoi curare. Va’, te ne prego.
COMINIO
Marzio, vieni via con noi.
CORIOLANO
Vorrei che costoro fossero i barbari che sono,
anche se figliati a Roma. Non Romani,
non lo sono, per quanto partoriti
sotto i portici del Campidoglio.
MENENIO
Vai, vai,
non affidare alla lingua la tua giusta rabbia.
Lascia tempo al tempo.
CORIOLANO
In uno scontro leale
ne batterei quaranta.
MENENIO
Io stesso saprei
strigliarne un paio dei meglio, i due tribuni ad esempio. COMINIO
Ma in questo momento la disparità
è troppo grande, e il coraggio
si chiama pazzia se ci si batte
contro una casa che crolla. Va’ via,
ti prego, prima che torni la teppa.
La loro rabbia travolge come una piena
arginata, che abbatte
i soliti freni.
MENENIO
Ti prego, vai.
Vedrò se il mio vecchio spirito è ancora richiesto da chi ne ha così poco. Lo strappo va rattoppato con una pezza qualsiasi.
COMINIO
Allora, andiamo.
Escono Coriolano e Cominio
UN PATRIZIO
Quell’uomo ha sciupato la sua fortuna. MENENIO
La sua natura è troppo nobile per il mondo.
Non adulerebbe Nettuno per il suo tridente,
né Giove per il possesso del tuono.
Il suo cuore è la sua bocca. Ciò che il petto forgia la lingua l’avventa, e quando è adirato dimentica di aver mai sentito
la parola morte.
Rumore all’interno
Ora viene il bello!
UN PATRIZIO
Vorrei che fossero a letto!
MENENIO
Sì, nel letto del Tevere! O diamine,
non poteva parlargli civilmente?
Entrano Bruto e Sicinio, di nuovo con la folla SICINIO
Dov’è la vipera
che voleva spopolare la città ed essere
lui solo il tutto?
MENENIO
Onorevoli tribuni…
SICINIO
Verrà gettato dalla rupe Tarpea
da mani intransigenti. S’è opposto alla legge
e perciò la legge gli nega altro giudizio
oltre quello severo del popolo
che egli disprezza tanto.
I CITTADINO
Imparerà
che i nobili tribuni sono la bocca del popolo e noi le mani.
I PLEBEI
Lo imparerà sicuramente.
MENENIO
Amico, amico mio…
SICINIO
Silenzio!
MENENIO
Non gridate allo sterminio quando dovreste tenervi a limiti stretti
nella vostra caccia.
SICINIO
E tu Menenio come mai
l’hai aiutato a scappare?
MENENIO
Ascoltatemi.
Conosco i meriti del console ma
so anche dirne i difetti.
SICINIO
Il console? Quale?
MENENIO
Il console Coriolano.
BRUTO
Console, lui!
I PLEBEI
No, no, no, no, no.
MENENIO
Se, col permesso dei tribune e il vostro, buona gente, io posso parlare, vorrei
dirvi una parola o due, che non vi torranno altro che un po’ di tempo.
SICINIO
Bene ma presto,
perché siamo decisi a eliminare
quel traditore velenoso. Esiliarlo
sarebbe solo un rischio, tenerlo qui
la nostra morte sicura. Perciò è decretato che muoia stasera.
MENENIO
Gli dei clementi non vogliano
che la grande Roma, la cui gratitudine verso i suoi fìgli meritevoli è iscritta
nel libro stesso di Giove, ora divori
le sue creature, come una bestia snaturata! SICINIO
Quell’uomo è un morbo da estirpare. MENENIO
No, è solo un arto ammalato.
Se lo si taglia, il corpo muore. Ma è facile curarlo. Che ha fatto a Roma
per meritarsi la morte?
Quando uccideva i suoi nemici, il sangue
perduto – e oso affermare che ne ha perduto
assai più di quanto gliene resta –
l’ha perduto per il suo paese.
E se perdesse quello che gli resta
per mano dei suoi, ah per noi tutti sarebbe,
complici o testimoni, un marchio infame
sino alla fine del mondo.
SICINIO
Questa è mistifìcazione!
BRUTO
È tutto fuori luogo. Quando ha amato il suo paese,
il suo paese l’ha onorato.
SICINIO
Se un piede
va in cancrena, non lo si risparmia
per il servizio che ha fatto.
BRUTO
Non vogliamo
sentire altro. Cercatelo in casa,
e arrestatelo, sennò il suo male
che è contagioso di natura,
infetterà altra gente.
MENENIO
Ancora una parola, una parola!
Questo vostro furore da tigri, quando
vedrà il danno di una fretta cieca
troppo tardi si legherà ai calcagni
pesi di piombo. Attenetevi alla legge,
perché egli è amato, e le fazioni
possono scatenarsi, e la grande Roma
può essere saccheggiata dai Romani.
BRUTO
Se fosse
per evitare questo…
SICANIO
Ma che cosa dici?
Non abbiamo avuto un saggio della sua obbedienza? I nostri edili percossi, noi stessi attaccati?
Andiamo!
MENENIO
Considerate una cosa. È stato
cresciuto tra le guerre
da quando seppe impugnare una spada. Nessuno gli ha insegnato a parlare con garbo. Farina e crusca le mescola senza distinguerle. Autorizzatemi ad andare da lui e tentare
di farlo venire laddove pacatamente,
in forme legali, vi risponderà,
anche a rischio della vita.
I SENATORE
Nobili tribuni,
questo è agire con umanità. L’altro modo risulterà troppo sanguinoso, e gli sbocchi imprevedibili.
SICINIO
Ebbene, nobile Menenio,
sii tu dunque il rappresentante del popolo. Deponete le anni, amici.
BRUTO
Ma senza disperdervi.
SICINIO
Radunatevi al Foro. Vi aspetteremo lì.
Se non ci porti Marzio, faremo
come si è deciso.
MENENIO
Ve lo porterò.
(ai Senatori) Vi chiedo di accompagnarmi. Deve venire, o accadrà il peggio.
I SENATORE
Sì, andiamo da lui. Escono

Il doppiaggio italiano del film è ottimo: soprattutto Francesco Prando su Coriolano (Ralph Fiennes), Luca Ward su Aufidio (Gerard Butler) e Ada Maria Serra Zanetti su Volumnia (Vanessa Redgrave), madre di Coriolano.
Il film è godibile in italiano per l’ottimo adattamento del doppiaggio e l’accostamento delle voci, però si perde molto di ciò che Ralph Fiennes ha voluto rappresentare, poiché nella traccia originale inglese sono presenti tutti i suoni dell’ambientazione moderna; selezionando la traccia italiana sembra di ascoltare un’ottima recita teatrale, su immagini moderne, snaturando quindi il senso ultimo dell’accostamento, ovvero un dramma personale e un conflitto sociale che sono in realtà universali e presenti in ogni epoca.
Convincente anche la colonna sonora moderna e incalzante, la quale si addice al carattere del protagonista, sino alla sua tragica fine.
Prima della delegazione delle matrone romane, Menino aveva provato a smuovere l’animo di Caio Marzio, senza alcun risultato.
MENENIO
C’è una bella differenza tra un verme e una farfalla, no? Eppure la farfalla era un verme. Questo Marzio, da uomo, s’è fatto dragone. Ha messo le ali, è qualcosa di più d’una bestia che striscia.
Nell’ultima scena del quinto atto, Caio Marzio va incontro al suo destino nel solo modo in cui è capace di rapportarsi con gli altri, come dimostrano le sue ultime parole.
ATTO QUINTO – SCENA SESTA
Entra Tullio Aufidio, con persone del seguito
AUFIDIO
Andate a dire ai signori della città
che io sono qui. Consegnate questo messaggio.
Lo leggano, e vadano poi al foro dove
dinanzi a loro e al popolo
darò le prove che è vero. L’uomo che accuso
è entrato ora in città, e intende apparire
dinanzi al popolo, sperando
di scagionarsi a parole. Fate presto.
Escono le persone del seguito
Entrano tre o quattro cospiratori della fazione di Aufidio Benvenuti!
I COSPIRATORE
Come sta il nostro generale?
AUFIDIO
Come uno
che è avvelenato dalle proprie elemosine
e assassinato dalla generosità.
II COSPIRATORE
Nobilissimo
Aufidio, se ancora sei di quell’idea
di cui ci hai voluto partecipi, noi
ti sbarazzeremo dal pericolo.
AUFIDIO
Non posso
ancora dirlo. Bisogna agire
secondo gli umori del popolo.
III COSPIRATORE
Il popolo sarà incerto finché c’è contrasto
tra di voi. Ma appena uno cade,
l’altro eredita tutto.

AUFIDIO
Lo so,
e il mio pretesto per colpirlo può
motivarsi bene. Io l’ho sollevato, e ho impegnato
l’onore sulla sua fedeltà. E lui, giunto
così in alto, ha annaffiato le sue nuove piante
con la rugiada dell’adulazione, incantando
i miei amici. E per questo
ha piegato la sua natura, che prima
era sempre apparsa brusca, indomita, libera.
III COSPIRATORE
Sì, la sua ostinazione
quando si candidò console, e perse
per non volersi piegare…
AUFIDIO
Stavo per dirlo
Bandito per questo, venne al mio focolare,
offrì la gola al mio coltello. Io lo accolsi,
lo feci mio collega, accettai
tutte le sue richieste, anzi gli permisi
di scegliere tra i miei soldati, per
realizzare i suoi piani, gli uomini migliori,
i più forti. Mi misi io stesso
a sua disposizione.
Lo aiutai a mietere quella fama
che finì col far tutta sua, e
m’inorgoglivo a farmi questo torto.
Finché in ultimo parevo un suo subalterno,
e non suo eguale, ed egli mi pagava
con la sua degnazione, come se fossi
un mercenario.
I COSPIRATORE
Vero, signore mio.
L’esercito se ne stupiva. E infine
quando Roma era vinta e ci aspettavamo
non meno bottino che gloria…
AUFIDIO
Questo
è stato il fatto per cui ogni mio sforzo
è, teso contro di lui. Per poche gocce
di spurgo donnesco, che vanno
a dozzina, come le menzogne, ha venduto
il sangue e la fatica
della nostra grande impresa. Per questo
morirà, ed io rinascere
nella sua caduta. Ma sentite!
Suonano tamburi e trombe, fra grandi acclamazioni del popolo I COSPIRATORE
Nella tua stessa città sei entrato come un corriere senza nessun bentomato. Lui torna e il fracasso spacca l’aria.
II COSPIRATORE
E questi poveri imbecilli
ai quali ha sgozzato i figli, si spellano
la gole vili per glorificarlo.
III COSPIRATORE
E dunque
al momento giusto, prima che parli o
muova la gente con ciò che vuol dire,
fagli sentire la spada, e noi
ti diamo una mano. Una volta steso
racconta la storia a modo tuo, e seppellirà
la sua carcassa e le sue ragioni.
AUFIDIO
Zitti.
Arrivano i senatori.
Entrano i maggiorenti della città
TUTTI I MAGGIORENTI
Un caldo bentornato in patria.
AUFIDIO
Non l’ho meritato.
Ma, nobili signori, avete letto bene
quanto vi ho scritto?
TUTTI
Sì.
PRIMO MAGGIORENTE
E ci addolora
saperlo. Gli errori che ha fatto,
prima dell’ultimo, io penso, potevano
passarsi con qualche lieve riparazione.
Ma fermarsi quando doveva incominciare,
gettar via il vantaggio di aver pronto un esercito,
lasciandoci per guadagno le spese fatte,
firmando un trattato con un nemico arreso –
ciò non ammette giustificazione.
AUFIDIO
Ecco, viene. Sentirete cosa dice.
Entra Coriolano marciando con tamburi e bandiere, seguito da una folla di popolani CORIOLANO
Salve, signori! Io torno da soldato
vostro, non affetto da amore per la mia terra
più di quando partii da qui, ma sempre
sottomesso ai vostri alti ordini.
Sappiate che il mio tentativo ha avuto successo,
e che ho aperto al vostri eserciti una via
sanguinosa sino alle porte di Roma. Il bottino
che abbiamo riportato supera di un buon terzo le spese della guerra. Abbiamo concluso
una pace tanto onorevole per Anzio
che te per Roma. E qui vi consegnamo
firmato dai consoli e dai patrizi, e col sigillo del Senato, l’accordo raggiunto.
AUFIDIO
Non leggetelo,
nobili signori, ma dite a questo
grandissimo traditore, che egli ha abusato
dei vostri poteri.
CORIOLANO
Traditore? Ma come!
AUFIDIO
Sì, traditore, Marzio!
CORIOLANO
Marzio?
AUFIDIO
Sì, Marzio, Caio Marzio! O credi
che ti farò bello del tuo furto, del tuo
nome rubato, Coriolano, a Corioli?
Signori e capi dello Stato, costui
ha tradito con perfidia la vostra causa,
e ha ceduto per qualche goccia d’acqua salata, la vostra città, Roma – dico
la vostra città – a sua moglie e sua madre, stracciando giuramenti e propositi
come un ritorto di seta marcia,
e senza neanche sognarsi
un consiglio di guerra. Alle prime lacrime
della balia, sprecò frignando e strillando
la vostra vittoria, tanto che i paggi
arrossirono per lui, e gli uomimi d’onore restarono a guardarsi di sasso.
CORIOLANO
Lo senti, Marte?
AUFIDIO
Non nominare il dio, frignoncello!
CORIOLANO
Eh?
AUFIDIO
Sì, null’altro.
CORIOLANO
Mentitore spudorato, mi fai scoppiare
il cuore nel petto. “Frignoncello”! Schiavo! Perdonatemi, signori, è la prima volta
che sono costretto all’insulto. Il vostro giudizio, voi venerabili, deve smentire questo cane;
e ciò che sa lui stesso – lui che addosso ha stampati i miei colpi di frusta, lui
che si porta alla tomba le mie bastonate – contribuirà a ricacciargli in gola
le sue menzogne.
I MAGGIORENTE
Calma, ambedue, e ascoltatemi.
CORIOLANO
Fatemi a pezzi, Volsci. Uomini e ragazzi,
insanguinate di me tutte le vostre lame.
“Frignoncello”! Cane bugiardo! Se nei vostri
annali avete scritto la verità,
c’è scritto che come un’aquila in un colombaio
ho scompigliato i vostri a Corioli.
Lo feci da solo. “Frignoncello”!
AUFIDIO
E voi,
nobili signori, vi farete ricordare
quel suo colpo di fortuna che fu
la vostra vergogna, da questo empio fanfarone
qui davanti ai vostri occhi, e ai vostri orecchi?
TUTTI I COSPIRATORI
Muoia per questo.
TUTTI I POPOLANI
Fatelo a pezzi! Subito! Ha ucciso mio figlio! Mia figlia! Ha ucciso mio nipote Marco! Ha ucciso mio padre!
II MAGGIORENTE
Pace, oh! Niente violenza! Pace!
Quest’uomo è nobile e la sua fama
abbraccia l’orbe terrestre. Le sue colpe
recenti verso di noi saran giudicate
legalmente. Aufidio, fermati,
non turbare la pace.
CORIOLANO
Ah se potessi
contro di lui e sei altri Aufidi o più – la sua razza
usare liberamente questa spada!
AUFIDIO
Canaglia insolente!
TUTTI I COSPIRATORI
Ammazza, ammazza, ammazza, ammazzalo!
I cospiratori snudano le spade e uccidono Marzio, che cade Aufidio mette un piede su di lui
I MAGGIORENTI
Fermi, fermi, fermi, fermi!
AUFIDIO
Nobili signori, ascoltatemi.
I MAGGIORENTE
Ah, Tullo!
II MAGGIORENTE
Hai fatto un’azione su cui il valore piangerà.
III MAGGIORENTE
Non stargli addosso. Voi tutti, silenzio.
Via quelle spade.
AUFIDIO
Signori, quando saprete – e in questo scompiglio
da lui voluto è impossibile –
il grande pericolo ch’era per voi
la vita di quest’uomo, sarete contenti
che sia stato ucciso così.
Piaccia ai vostri onori convocarmi
al Senato, mi dimostrerò vostro leale
servo, o, accetterò il giudizio più duro.
I MAGGIORENTE
Portate via il corpo, fategli onoranze funebri.
Sia considerato la salma più nobile che mai
araldo accompagnò all’urna.
II MAGGIORENTE
La sua irruenza
toglie ad Aufidio gran parte di biasimo.
Teniamolo in conto, e molto.
AUFIDIO
La mia rabbia è scomparsa,
ora sento il dolore. Sollevatelo.
Tre dei guerrieri di grado più alto
diano una mano, io sarò il quarto.
Tu batti il tamburo, che suoni a lutto.
Bilanciate le vostre picche. In questa città
quest’uomo ha reso vedove e senza figli
molte donne che ancora piangono il danno,
e tuttavia avrà un nobile monumento. Aiutatemi.
Escono portando il corpo di Marzio. Suona una marcia funebre

Aufidio si dimostra l’opposto di Caio Marzio, e anche lui un condottiero, ma contrariamente a “Coriolano” ama il suo popolo, e tutto ciò che fa lo fa per la sua gente: combatte, cede addirittura metà del comando al nemico di sempre, sfruttando i suoi propositi di vendetta, sono quasi a farsi da parte per una vittoria importante contro il nemico. Al momento opportuno Aufidio coglie persino l’attimo per sfruttare le circostanze e mandare a morte Marzio (negandogli il “nome rubato” di Coriolano), che lo insulta come sempre. Aufidio però è profondamente diverso, come ci fa capire l’ultima battuta dell’opera e, senza cedere all’ira e al disprezzo, onorerà Marzio con un grande monumento.
Aufidio ha ed è la misura di sé stesso: è effettivamente la nemesi di Coriolano.
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