di Andrea Lilli –

Il diritto di vivere in pace, sognare, amare, lavorare. Il diritto del sessantenne Issa di fare il proprio mestiere di pescatore, andare al mercato, vendere il pesce, conoscere una donna di mezza età, farle una timida corte sfacciata, con la scusa di accorciare i pantaloni, perché Sahim è una sarta di vestiti femminili ma non importa, l’importante è poterla avvicinare, e poi il diritto di cantare euforici una vecchia canzone di Julio Iglesias mentre il pesce frigge nella vecchia padella, tra le mura scrostate di casa, sotto lo sguardo di vecchi ritratti in bianco e nero. Si può? È lecito, un amore a Gaza?

“Gaza mon amour” è un ossimoro: come è possibile già solo immaginare di vivere normalmente, desiderare di sposarsi tra rovine senza speranza, in quella prigione a cielo aperto che è Gaza, in cui ogni diritto sembra cancellato? Tanto più quando lui è un vecchio scapolo, lei una vedova con figlia – non son mica ragazzini, perché non s’accontentano della fortuna di sopravvivere? – e tuttavia ancora sognano in una città schiacciata fra due dannazioni, occupanti e militari israeliani fuori e guardiani islamici dentro, eppure vogliono restarci a Gaza, mentre i più giovani non progettano che la fuga. Il titolo cita il film di Alain Resnais Hiroshima mon amour (1959): anche là una coppia in una città distrutta dalle bombe. Invece qui i registi, i gemelli Nasser (tragica coincidenza: stesso nome dell’ospedale oggetto della recente strage di operatori e giornalisti) non cercano lacrime lamenti anatemi. Non fanno un film ‘di denuncia’, bensì una commedia romantica alla Pane e tulipani, e il bello è che ugualmente muovono, di rimbalzo, quelle corde: provocano comunque commozione, rabbia, solidarietà, denuncia politica. Lasciano lo stesso un segno nello spettatore, una ferita, ma con un sorriso olimpico, apollineo. Non è facile.

Questa è la semplice storia di un innamoramento, delicata, arguta, senza eroi, con due protagonisti umani, uno divino, pochi personaggi secondari – la sorella e l’amico del pescatore, la figlia della sarta, gli sgherri di Hamas – descritti con empatia e al tempo stesso con distacco; sembra la penna di un Mahfuz o di un Cechov immersa nel vissuto reale di ambienti e problemi quotidiani difficili, tremendi, ma illuminati dall’imprevedibile irruzione del fantastico, rappresentato dal ritrovamento di una statua integra di Apollo. Un dio del sole e della razionalità che sembra provenire da un mondo lontano anni luce, osserva sogni e bisogni del pescatore dai vertici di un antico passato saggio e positivo (il sorriso, il braccio benevolente, il pene eretto); un antenato imbarazzante, scandalosa la sua serena autorevolezza, una presenza insopportabile di cui disfarsi al più presto, tant’è in contrasto con le cupe miserie che la circondano.

Se vedessero questo film del 2020, i militari israeliani che oggi bombardano e vogliono sfollare tutti i gazawi, se lo vedessero i miliziani che tengono in ostaggio il destino di un popolo insieme a ciò che resta dei prigionieri del 7 ottobre 2023, quei signori della guerra, questi gendarmi del fanatismo religioso, che dicono di odiarsi e di voler cancellare il nemico ma in realtà si sostengono alimentandosi reciprocamente, ricorderebbero cos’è un uomo normale, una donna normale, due qualunque delle loro innumerevoli vittime quotidiane, e forse (forse!) si vergognebbero un po’ domani, nel prossimo massacro. Arab e Tarzan Nasser nel frattempo hanno fatto il terzo film sulla loro città con lo stesso tocco leggero e acuto: Once Upon a Time in Gaza, 2025 (il primo: Dégradé, 2015). Una trilogia da non perdere, se dopo Gaza vorremo ancora parlare di cinema.
Da un’intervista ai registi (ora in esilio):
“Gaza mon amour” è un film tenero ma caustico, ispirato a fatti realmente accaduti. Nel 2013 un pescatore di Gaza trovò una statua di Apollo in mare. La polizia palestinese la confiscò e iniziò a cercare un acquirente straniero, sperando di ricavarne un guadagno. Nessuno sa che fine abbia fatto la statua. Si dice che non sia mai stata venduta e che alla fine sia stata distrutta in un attacco aereo. Il rapporto degli islamisti radicali con l’arte è assurdo; noi stessi abbiamo studiato arte all’Università di Gaza. Dopo il colpo di stato e la presa del potere da parte di Hamas, i dipinti di nudo, alcuni paesaggi e persino i corsi d’arte sono stati vietati per interi periodi. È stato triste constatare che il governo non avesse idea di cosa fare con la statua di Apollo, se non esiliarla nella cantina più profonda di un alto ufficiale.
Con questo film vogliamo offrire uno spaccato della vita quotidiana in questo piccolo angolo di terra chiamato Gaza. È un posto strano, dove le situazioni più semplici si complicano e i problemi sono infiniti: politici, finanziari e sociali. L’occupazione israeliana è dura per tutti. L’assedio ha lasciato il popolo palestinese a malapena un respiro per decenni, soprattutto a Gaza. In nome della religione e della tradizione, un governo che in realtà è un movimento islamista governa il Paese con ferrea severità. Ogni tentativo di cambiare le cose dall’interno viene soffocato. Noi palestinesi ci troviamo in un circolo vizioso. Col tempo, impariamo a metterci nei nostri panni. Abbiamo imparato che è impossibile dire cosa pensiamo o essere chi siamo.
Le persone vivono nella paura costante: della vita, del domani, di Israele, di Hamas e così via. Per noi, i sogni sono l’unico modo per sopportare la realtà. Questa è anche la storia che raccontiamo attraverso gli occhi di Issa, il nostro personaggio principale. È un uomo semplice e timido che non sa davvero come esprimere i suoi sentimenti. Puoi incontrare un uomo così ovunque a Gaza, un uomo che vuole semplicemente vivere in pace. Ma non ha altro. Non ha altra scelta che rifugiarsi nelle sue fantasie e vivere la vita che desidera solo nei suoi sogni. L’amore e tutto ciò che comporta di fisico è una parte importante della vita di ogni persona. Eppure, come ovunque nel mondo arabo, è un tabù nella società palestinese odierna.

Gaza mon amour è visibile in v.o. con sottotitoli in italiano e inglese qui.
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