di Girolamo Di Noto

La capacità del cinema di narrare storie coinvolgenti ha trovato soprattutto nello sport terreno fertile, contribuendo a trasmettere emozioni, determinazione, sacrifici, perseveranza. Diversi registi hanno saputo cogliere, al di là dello sport in questione, profonde dinamiche psicologiche e narrative, arrivando a raccontare storie di vita, di umanità. Se pensiamo a Million Dollar Baby di Eastwood, il rapporto tra allenatore e pugile non è solo sportivo ma più profondo e straziante, così com’è il caso di Toro scatenato di Scorsese, che più che un film sul mondo della boxe è un’amarissima riflessione su “chi è convinto di non meritarsi quel che gli è capitato”.

Se riflettiamo, più nello specifico, sul rapporto tra cinema e tennis, non può che tornare alla memoria dello spettatore Match Point di Woody Allen: se nel film del regista newyorkese l’attenzione è rivolta sui limiti dell’ambizione, sul peso dei soldi e quella palla sulla rete non è che una metafora concreta sulla fortuna e le scelte del caso, nel nuovo film del regista Di Stefano, Il maestro, l’interesse è focalizzato sulla sconfitta, non vista come fallimento ma come parte integrante della vita.

Presentato fuori concorso a Venezia 82, dal valore fortemente personale per il regista, come si deduce dall’aggiunta “chiaro, papà?” alla scritta Ogni riferimento è puramente casuale, il film è un racconto intimo e malinconico sul fallimento come possibilità, sull’errore come occasione per crescere.

Il film racconta il viaggio di un ex tennista disilluso, Raul Gatti (Pierfrancesco Favino), che diventa l’allenatore di Felice (Tiziano Menichelli), tredici anni e sulle spalle tutte le aspettative paterne, durante un’estate di tornei nazionali negli anni Ottanta. Di partita in partita, tra sconfitte, incontri bizzarri, bugie, questa avventura porterà Felice a scoprire il sapore della libertà e Raul a fare i conti con il proprio passato.
Dopo aver interpretato i panni del tenente Marco Amore, Favino torna a collaborare con il regista, mettendo in scena, con postura talvolta sofferta, un personaggio ambivalente, dalla personalità carismatica e seducente e nello stesso tempo dall’incapacità di adeguarsi alla routine della vita, un ex tennista fallito, oberato dai rimpianti del proprio passato, che vorrebbe utilizzare il sorriso per cancellare l’amarezza della vita ma non sempre ne è capace.

“È il primo grande perdente che interpreto”, ha confidato l’attore. “In qualche modo, anche quando ho recitato personaggi che magari finivano male, ho sempre impersonato dei vincenti. Pure se si trattava di Buscetta o Craxi, erano comunque dei vincenti benché fossero nel momento della difficoltà”. L’imperfezione di questo personaggio verrà svelata sin dall’incipit, senza comunque togliere mistero perché la storia di Raul, nella prima scena, sembra dipanarsi subito, dapprima facendo conoscere la sua voce e le sue parole, poi a seguire il volto, infine la precarietà del personaggio, ma poi nel corso del film verrà fuori lentamente, attraverso vecchie foto, ritagli di giornale, vecchi amori, vecchi luoghi, polsini da tennista che Raul non toglie mai, dando vita ad un personaggio sgangherato, che prende il caffè amaro “così come è la vita”, dall’aria da eterno sciupafemmine, ma che combatte ogni giorno contro il male di vivere e il sorriso deve costruirselo ogni mattina, davanti allo specchio.

Raul Gatti ha un approccio alla vita e allo sport diametralmente opposto al papà di Felice (Giovanni Ludeno), che si può sintetizzare nei tennisti che hanno come punto di riferimento: da un lato il robotico Lendl, dall’altro Vilas, uno “che passava la notte in discoteca, prima di ogni incontro”. Per il padre la vita è solo sacrificio, binari dentro cui stare, regole da seguire scritte in un quaderno che sembra sacro come il Vangelo, per Raul la vita è istinto, trasgressione, libertà di esprimersi secondo la propria natura.

Tra queste due figure di adulti si staglia il personaggio di Felice, un ragazzino troppo ligio alle regole, che imparerà a trovare, accumulando sconfitte, schiaffi, lezioni di vita, la propria identità, senza la guida rigorosa e asettica del padre. Di fronte a una società in cui il successo viene considerato come unica misura del valore individuale, Di Stefano preferisce la poesia della sconfitta e il suo film è un omaggio “ai mentori imperfetti, feriti, ma pieni di cuore”.

Accompagnato da canzoni come Cuccuruccu Paloma, Ti pretendo e altre hit del periodo, il film è una parabola di cadute e rinascite, il viaggio di un “fallito che allena una pippa”, strutturato come una lunga partita di tennis caratterizzata da scambi intensi, errori figli della stanchezza, paure di non essere all’altezza, righe del campo che Gatti non ha mai saputo assecondare e soprattutto solitudine perché “Il tennis è spietato: è vero che sei da solo ed è vero che è con te stesso che te la devi prendere. Ed è con la tua vita che devi fare i conti”.
“Stiamo giocando un doppio, io e te”, dice Raul a Felice e in questa partita i due avranno modo di crescere, uno emancipandosi dalle ossessioni del padre, l’altro cercando un modo per fare i conti con il proprio passato, entrambi consapevoli che la grandezza sta nel saper restare umani anche dopo un 6-1 al secondo set perché in fondo non tutti sono destinati a essere i numeri uno, però ognuno è destinato a essere se stesso.

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