‘Una vita’ (Francia/Belgio, 2016), di Stéphane Brizé

di Girolamo Di Noto

Normandia, inizio Ottocento. Dopo essere cresciuta in collegio, la baronessa Jeanne Le Perthuis des Vauds si trasferisce nella residenza dei ” Pioppi ” della famiglia e qui vive un’adolescenza piena di sogni e aspettative per il futuro. Creatura d’animo nobile e gentile, Jeanne sposa il visconte Julien de Lamare con la speranza di essere felice e amata. Al ritorno del viaggio di nozze, il marito si rivela in realtà non solo avido e meschino, ma mostra anche una totale indifferenza verso la moglie al punto da tradirla prima con la domestica Rosalie, mettendola incinta, poi con la vicina di casa Gilberte de Fourville, la quale verrà uccisa con l’amante dal marito George, infine suicida.

Dopo la morte della madre, Jeanne riversa le proprie energie sull’unico figlio Paul, che a vent’anni l’abbandonerà per cercare fortuna altrove. Rimarrà sola, sommersa dai debiti provocati dalla vita dissoluta del figlio, ma un dono inaspettato le darà alla fine un calore di vita, un fremito d’amore.

Tratto dal primo dei sei romanzi di Guy de Maupassant, Une vie, pubblicato nella primavera del 1883 quando lo scrittore era già celebre e aveva dato alla luce uno dei più famosi racconti, La Maison Tellier, reso al cinema magistralmente da Ophuls ne Il Piacere, è uno straordinario ritratto femminile immerso in una società che è un coacervo di ipocrisia e perbenismo di facciata.

La protagonista, ignara e fiduciosa della vita, vi trova miserie e amarezze, colleziona fallimenti, subisce gli avvenimenti e se ne lascia travolgere. Sogna, si illude, come una qualsiasi vita, cresce genuina come i prodotti della terra che cura amorevolmente, ma nulla può nei confronti di un destino crudele che la perseguita: vorrebbe non subire l’ipocrisia imperante, desidererebbe vivere e non sopravvivere, ma quando si accorge che tutto ciò che la circonda è miseria, sventura, dolore, la sua vita pare spezzata, ogni gioia perduta.

“Tutti mentono”, dice Jeanne al curato che la confessa: dietro rigide regole morali, sotto l’apparenza si nascondono tradimenti, soprusi, comportamenti di certo non irreprensibili. Perfino il ricordo della madre verrà deturpato da dolorose rivelazioni. Il giorno della morte della mamma, Jeanne scopre, aprendo lo stipo, una decina di piccoli pacchetti ingialliti: contengono lettere piene di tenerezza, dichiarazioni appassionate, raccomandazioni di prudenza. La scoperta amara che la mamma ha avuto un amante.

Il gesto da parte di Jeanne, istintivo e protettivo, di afferrare quelle vecchie carte ingiallite e di bruciarle per evitare che il padre possa venire a conoscenza dell’ amara verità avrà poi la stessa valenza quando, una volta scoperto il secondo tradimento di Julien con Gilberte, sceglierà di non rivelare nulla al marito di lei. Delusa ormai dalle sue aspettative, non vuole rovinare le illusioni degli altri, ma si dovrà scontrare con il nuovo curato che, al contrario del precedente, non tollera l’adulterio e, probabilmente perché giovane, è pronto a denunciare tutto e rivelare la verità.

In una società in cui si radica la menzogna, è interessante notare come, con Maupassant prima e con Brizé dopo, si rifletta sul ruolo che ha avuto la religione nei confronti della verità. Mentre il vecchio curato si trova in linea con i princìpi dell’aristocrazia mettendo tutto a tacere, riamettendo Julien nella famiglia dopo il primo tradimento perché ” Dio perdona e aggiusta tutto”, il nuovo curato è inflessibile verso i peccati del corpo e, quando verrà a sapere della tresca che coinvolge Julien e Gilberte, inviterà Jeanne a non piegare la testa, a ribellarsi e a non essere una sposa compiacente, ma al rifiuto di lei sarà lui, esaltato da una sete di giustizia, a prendere l’iniziativa e a informare George dell’ accaduto scatenando però una gelosia tale da condurre il marito tradito ad uccidere gli amanti e sé stesso.

Straordinaria l’interpretazione di Judith Chemla nei panni di Jeanne: si muove con eleganza e conserva un fascino delicato che ricorda la Binoche degli esordi. L’interpretazione intensa e commovente dell’ attrice è merito- va detto – anche del regista che, per meglio concentrarsi sui primi piani di Jeanne, sceglie il formato ” quadrato ” quasi desueto, piuttosto insolito( 1.33:1 ), a misura di volto, utile per far coesistere tutto il mondo esterno con l’interiorità della protagonista. Brizé, inoltre, resta fedele al romanzo, ma procede per ellissi: c’è un continuo gioco di anticipazioni, di scene che avverranno di lì a poco, o di flashback legati a ricordi teneri, barlumi di un amore nascente e subito spento. In un attimo passano gli anni, di molti avvenimenti vediamo solo le conseguenze. Non entriamo nella stanza in cui si consuma l’adulterio, ma assistiamo- in una delle scene più superbe del film- al travaglio interiore di Jeanne espresso in quella fuga notturna nella brughiera, lei che ” è nuda e non ha freddo, non vede, non sente più nulla, tanto la convulsione della sua anima intorpidisce il suo corpo”.

Un’opera mirabile, capace di scavare nell’ animo umano, che coglie il senso di vanità delle cose e della vita, che offre una visione sconsolata dell’ esistenza, ma che riesce anche a donare un ultimo barlume di tenerezza quando Jeanne, dopo varie peripezie, stringerà tra le braccia la creatura del figlio e che farà dire a Rosalie, tornata da vedova ad occuparsi della sua padrona, la celebre battuta finale del libro: ” La vita, vedete, non è né così bella né così brutta come si crede”.

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