Di A.C.

Howard Ratner, un gioielliere newyorchese di famiglia ebraica col vizio del gioco e indebitato con molteplici creditori, cerca di districarsi in una escalation di situazioni compromettenti dopo che, entrato in possesso di un prezioso opale nero etiope, mette in pratica una serie di scelte sbagliate dettate dalla leggerezza di giudizio.

I fratelli Safdie, dopo il meritato plauso della critica con il precedente “Good Time”, riconfermano il proprio estro, già dimostrato nelle loro precedenti fatiche, con un’opera dai ritmi serrati e frenetici, in cui dietro una storia di vita comune raccontano una dimensione umana e sociale piuttosto cupa nella cornice di una New York caotica, ricolma di violenza, avidità e follia.
Riprendendo certe ambientazioni di “Good Time”, i Sadfie con la loro regia adrenalinica e ossessiva, la cui macchina da presa non perde mai di vista il suo protagonista, raccontano la tragicomica disavventura di un uomo ridicolo, succube degli altri ma soprattutto di sé stesso e dei propri vizi. Un uomo a cui presta volto un sorprendente Adam Sandler, in un ruolo proprio calcato sulla sua maschera recitativa: nevrotico, grottesco e anche un po’ sciocco, ma con un’aura di tragico attorno che ne restituisce un’immagine splendidamente penosa e tutt’altro che comica.

Una drammatica disamina antropologica sull’avidità e l’insania che ne consegue, partendo dalle miniere etiopi dove la vita di un uomo non ha alcun valore di fronte ai frutti del raccolto, per poi giungere in una New York abbacinante, in cui però lo scenario morale resta invariato, che sia il contesto opulento e sfarzoso di una certa comunità ebraica oppure quello tetro del suo sottobosco malavitoso.

Un eccellente prodotto del cinema indipendente americano che, anche grazie ai talentuosi fratelli Safdie, sta negli ultimi anni alzando sempre di più la propria asticella qualitativa e che, arrivati a questo punto, necessiterebbe solo di una maggiore gratificazione sul piano della distribuzione.
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