L’ora del lupo (1966), di Ingmar Bergman

di Laura Pozzi

Omaggio a Max Von Sydow (Lund, 10 aprile 1929 – Parigi, 8 marzo 2020)

In questi giorni di allarme, confusione e deleteria incertezza un grande del cinema mondiale ha deciso di salutare e togliere silenziosamente il disturbo: Max Von Sydow. Icona intramontabile del cinema bergmaniano (e non solo) reso immortale nonostante la celeberrima partita a scacchi con la morte da Il settimo sigillo, l’attore svedese naturalizzato francese nel corso della sua monumentale carriera ha rappresentato senza dar troppo nell’occhio timori e inquietudini dell’uomo moderno. O forse sarebbe più corretto dire dell’uomo nordico, vista la totale e profonda empatia mostrata nei confronti del maestro Bergman. Se Il settimo sigillo rappresenta il punto più alto toccato dal genio e talento di entrambi, L’ora del lupo è senza dubbio l’opera più misteriosa, inafferrabile e spettrale realizzata dalla magica triade (doveroso includere la celestiale Liv Ullmann). Un film sottostimato e forse non a torto considerato “minore” all’interno di una filmografia che vanta capolavori quali Il volto, Persona, Sussurri e grida (solo per citarne alcuni). Tuttavia ogni film di Bergman cela in sé una rivelazione, una suggestione un punto di non ritorno dove i protagonisti una volta varcata la soglia non possono tornare indietro frantumandosi come in uno specchio.

L’ora del lupo è un film impossibile da raccontare, o meglio si può, ma fino a un certo punto.  Johan (Max Von Sydow) e Alma (Liv Ullmann) sono una coppia che ha scelto l’autoisolamento sull’isola di Baltrum nell’arcipelago delle Frisone. Johan è un pittore di successo specializzato in ritratti, ma è anche vittima di una profonda depressione che dì li a poco sfocierà in vero e proprio delirio. Ossessionato dal buio, molestato da un passato invadente, popolato da incubi di un’infanzia negata e dal fantasma di un amore elusivo, i demoni creati dalla sua mente si divertiranno non poco ad accompagnarlo all’inferno supportati dalla complicità e dedizione della candida Alma. La storia inizia svelando da subito la sua natura prettamente filmica mettendo in relazione didascalie e titoli di testa con un sottofondo di voci e rumori indistinti provenienti da un set. Tutto è pronto, finalmente si gira. L’apparizione, la confessione e lo sguardo in macchina di Alma creano un prologo visivamente intrigante, oltremodo inquietante, ma necessario preludio ad una storia che nonostante il sole di mezzanotte non troverà mai uno spiraglio di luce.  I due protagonisti sbarcano su un’isola disabitata, flagellata da un vento ostile, ma affettuosamente accolti da un melo in fiore e dolcemente cullati dal rumore del mare.

L’inizio è promettente, l’amore sembra aver trovato i ritmi giusti, fino a quando surreali e improbabili presenze cominciano a vagare per l’isola materializzandosi dinanzi agli occhi di un sempre più cupo e spaurito Johan. E’ notte, il buio incombe, l’ora del lupo (quell’ora in cui molte persone muoiono, molti bambini nascono, dove il sonno è più profondo e gli incubi più reali, dove gli insonni sono tormentati dalle loro più profonde paure e i demoni sono più potenti) è vicina. Un silenzio assordante avvolge gli scarni dialoghi di una coppia illuminata solo dalla fioca luce di un fiammifero. Johan e Alma sono protagonisti di una notte infinita, di un mondo impossibile da chiudere fuori nemmeno fuggendo su un’isola deserta. I fantasmi trascritti e disegnati da Johan cominciano a prendere forma a richiedere maggiore attenzione e complicità ad una mente sul punto di esplodere e andare in mille pezzi. Alma su suggerimento di una stravagante donna di 216 anni apparsa alle sue spalle trova e legge il diario segreto del tormentato amante e decide di assecondarlo nell’oscura discesa agli inferi. Alma è una donna innamorata, ma il suo amore è destinato a fallire nonostante la scelta di accogliere e socializzare con i fantasmi di Johan. “Una donna che vive a lungo con un uomo, finisce per essere simile a lui. Dicono che se lei lo ama e cerca di pensare e vedere come lui, si identifica con lui, come anche lui si trasforma nella forma di lei. Due persone che hanno vissuto tutta la vita insieme finiscono per somigliarsi. Fare tante esperienze in comune non solo cambia i pensieri, ma anche i volti, che lungo andare finiscono per avere la stessa espressione” Questo il sofferto e accorato appello ad un uomo ormai fagocitato da un processo di autodistruzione mentale. Nel frattempo un fantasma, il barone von Markens invita la coppia ad un party organizzato nel suo castello, ad attenderli un infernale e non meglio definito girone dantesco popolato da spaventosi e ridicoli mostri fra i quali l’amante perduta Veronica Vogler. Dopo la rovinosa serata in cui Johan sarà ripetutamente schernito e sbeffeggiato dai presenti, Alma gli confesserà di non sentirsi più sicura al suo fianco e dopo aver tentato di ucciderla, uscirà di casa sconvolto incontro ai suoi demoni.

Di più non si può dire di un film che molti hanno definito troppo incautamente horror. Horror è un genere che poco sia addice al maestro svedese anche se qui più che altrove, Bergman dimostra grande affinità con gli stilemi del cinema gotico e in misura maggiore espressionista. Magistrale l’omaggio al cinema muto nella scena in cui Johan massacra il piccolo demonio che lo ha morso. La vocazione gotica non manca di certo: l’isola deserta, il misterioso castello, il vento impetuoso e le strambe figure. Tutti elementi che Bergman padroneggia superbamente e anche in modo piuttosto ironico, come la vecchia signora che per ascoltare meglio la musica si toglie il viso e depone l’occhio nel bicchiere di sherry. Demoni all’apparenza tranquilli, bizzarri, ma pervasi da un dolore insopportabile, costretti a sopravvivere accapigliandosi e aggredendosi eternamente tra loro. Fino a mangiarsi l’anima l’un l’altro. Solo quando viene suonato Il flauto magico nel piccolo teatro dei burattini, il loro tormento viene mitigato. Tratto dal  copione teatrale “Gli antropofragi” da lui stesso scritto anni prima, Bergman realizza il film dopo un capolavoro (probabilmente il suo capolavoro) come Persona. Ma non lo considera un passo indietro, semmai un passo barcollante nella giusta direzione, un tentativo importante di circoscrivere una problematica difficile e di approfondirla. Del resto se Persona si fosse rivelato un flop, L’ora del lupo non sarebbe stato neppure concepito. Ma nonostante le apparenze questa pellicola dai tratti così marcatamente sfuggenti e irregolari, nasconde una fortissima componente autobiografica alimentata dai suoi incubi infantili e fallimenti amorosi. Una presa di coscienza esplicata attraverso la follia del suo protagonista, ormai giunto a un punto limite. “Io vi ringrazio, lo specchio è rotto, ma che cosa rispecchiano i frantumi?” Bergman non ha una risposta e probabilmente non l’avrà mai. Tuttavia il suo film sarà fondamentale apripista nonchè assoluta fonte d’ispirazione per autori come Stanley Kubrick (Shining) e David Lynch (Eraserhead), ma sopratutto per l’eccentrico Lars Von Trier: impossibile non rivedere nel suo formidabile Breaking in the waves (Le onde del destino) e nelle gesta dell’indimenticabile Bess le fattezze dell’amore estremo e totalizzante di Alma per il suo Johan.

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