I compagni, di Mario Monicelli (1963)

di Andrea Lilli

Il cinema in sala nasce nell’anno 1895 in due capitali europee, grazie a due coppie di fratelli geniali: gli Skladanowsky a Berlino e i Lumière a Parigi iniziano quasi contemporaneamente le proiezioni dei loro cortometraggi, realizzati con due brevetti diversi. Il Cinématographe dei francesi avrà in seguito più fortuna del Bioscop dei tedeschi.

Dopo 125 anni, l’ininterrotta storia del cinema pubblico è oggi bloccata per la prima volta, e paradossalmente da un nemico invisibile. Speriamo di sconfiggerlo presto e di tornare ad aprire le sale. Capolavori prodotti per il grande schermo non meritano di essere visti solo su monitor o display minuscoli, e in privato.

I compagni di Mario Monicelli è uno di questi.

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Siamo a Torino negli ultimi anni dell’Ottocento, proprio quelli de L’uscita dalla fabbrica Lumière, la prima proiezione dei fratelli Lumière. Ma mentre a Lione i lavoratori escono con aria serena dalle officine, a Torino una fabbrica tessile è in fermento. Un operaio ha subito un grave incidente. Il suo urlo si fa largo nel frastuono assordante dei telai, nel fracasso delle macchine tra i fumi dei vapori tossici. Nessuna norma di sicurezza, nessuna assicurazione obbligatoria contro infortuni o malattie lavorative. Uomini, donne e ragazzini fanno turni massacranti a proprio rischio e responsabilità.

Omero è un ragazzo sveglio ma non sa leggere: invece di andare a scuola va in fabbrica, come tutti quelli che devono anzitutto sopravvivere. Escono da abitazioni strette e affollate, fredde, senza gas, luce e acqua corrente. La sirena suona alle sei, si sta al pezzo fino alle otto e mezzo di sera. Quattordici ore di sudore al giorno, pausa pranzo di mezz’ora. Si vive poco per lavorare tanto. Troppo.

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All’ospedale, solita colletta per aiutare l’ennesima vittima. Ma stavolta alcuni compagni alzano la testa e guardano oltre: basta, non si può continuare a farsi sfruttare così. Una delegazione formata da Pautasso (Folco Lulli) – baffone ante litteram -, Martinelli (Bernard Blier) e Cesarina (Elvira Tonelli) trova il coraggio di bussare timidamente alla porta della Direzione: vorrebbero chiedere al Signor Ingegnere una riduzione di orario. Intercettati, non riescono nemmeno ad entrare. Si decide un gesto collettivo di protesta in fabbrica: ma è male organizzato, goffamente eseguito, e ottiene l’effetto contrario.

Siamo negli anni dei primi scioperi in Italia. Lo sviluppo industriale post-unitario ha catalizzato una coscienza di classe operaia che inizia a fare paura. Non esistono ancora i sindacati nazionali, sono lontane la rivoluzione russa e la nascita del Partito comunista italiano. Nel 1897 un giovane giornalista, Luigi Einaudi, scrive per La Stampa diversi articoli sugli scioperi nelle fabbriche tessili piemontesi. Nel 1894 il governo Crispi aveva dichiarato fuorilegge il Partito Socialista dei Lavoratori italiani, erede del Partito dei Lavoratori Italiani, fondato nel 1892 a Genova.

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E proprio da Genova giunge a Torino il professor Senigaglia (Marcello Mastroianni), idealista socialista inseguito da un mandato di arresto per attività sovversiva. Trova rifugio presso il maestro elementare Di Meo (François Périer), che aiuta gli operai ad alfabetizzarsi in una scuola serale autogestita. Là incontra gli operai riuniti in assemblea e comincia ad interferire nelle loro rivendicazioni convincendoli ad iniziare uno sciopero, che viene approvato “all’umanità”. Mastroianni interpreta bene questa figura di ‘intellettuale’ agitatore che la scrittura di Monicelli, Age e Scarpelli ha voluto complessa: ammirevole e patetica, altruista e opportunista. Per certi versi affine al professor Nicola di C’eravamo tanto amati (Scola, 1974).

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La volontà comune si salda sulla spinta oratoria del professore: lo sciopero inizia sulle note di Se tredici ore vi sembran poche, variazione anticipata del noto canto delle mondine. Per tutti è il primo sciopero e non è facile gestirlo, mantenerlo. Sorgono dubbi, attriti, che vanno a meglio definire i caratteri dei protagonisti e dei ruoli secondari. Il pennello di Monicelli attinge dal bianco e nero dei dati storici per colorare di calda umanità i grigi dei personaggi. Maestro della commedia all’italiana qual è, sparge ironia e disincanto senza nulla togliere alla drammatica serietà della vicenda. Raul (Renato Salvatori) ha in testa la bella figlia di Pautasso, piuttosto che la lotta operaia, ma da osservatore scettico diventa attivista duro. L’immigrato siciliano Salvatore che fa il crumiro, prima disprezzato come ‘beduino, mustafà, negro’, viene poi commiserato e compreso. Bastava andare a trovare la sua famiglia baraccata, moglie e quattro figli.

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La questione nord/sud diventa relativa: “Il Piemonte va male da quando siete arrivati voi siciliani”. “Mio padre dice invece che è la Sicilia ad andar male da quando sono arrivati i piemontesi” (tra l’altro, anche in questo film Monicelli si/ci diverte accostando i diversi dialetti italici). La prostituta Niobe (Annie Girardot), figlia di un altro operaio, stufa di una vita di stenti, viene prima compatita dal professor Senigaglia, poi frequentata a sue spese in stato di bisogno. Antonio, il giovane militare che s’invaghisce della sorella di Omero, Bianca (una giovanissima Raffaella Carrà), si schiera dalla parte giusta nel momento più tragico.

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Gli unici personaggi che restano granitici, tutti d’un pezzo, sono i padroni della fabbrica. Sordi e ciechi a ciò che non sia profitto. Umiliano gli operai con offerte mortificanti, trasformano in crumiri i disoccupati di altre industrie tessili, portano i militari a sparare sugli occupanti. Riescono a vincere la battaglia: assistiti da un po’ di fortuna e da un cinismo spietato, soffocano col sangue ogni speranza di giustizia.

Mario Monicelli del resto rivendicava sempre due cose: il suo orientamento comunista, rimasto invariato al mutare dei venti e delle convenienze. E la libertà di farsi beffe dei predicatori di professione come i numerosi intellettuali operaisti dell'”armiamoci e partite”. Il che ha significato per lui mantenere sempre alto e scomodo il livello del dubbio. La controversa figura del professor Senigaglia, il rapporto con i lavoratori in lotta rappresenta esattamente questo disagio, questo dilemma tra le parole ben dette da fuori e le cose vissute dentro la pelle. Un altro regista ha avuto in Italia lo stesso approccio partigiano e laico alla questione sociale: Pietro Germi, ma senza il tocco ironico del suo grande amico Monicelli. Basti ricordare la cupa tragicità de Il ferroviere (1956).

Il finale del film è dunque inevitabilmente amaro: i compagni si arrendono, un minuto prima dei padroni. Niente sconti: sono stati ingenui, fessi e tornano sconfitti ai telai. Il portone della filanda si chiude dietro il fratellino che sostituisce Omero. Anche il portone in chiusura delle fabbriche Lumière terminava il primo film dei fratelli Auguste e Louis. Lì maestranze sorridenti (del resto il padrone stava di fronte con la cinepresa, si presume abbia chiesto una gaia collaborazione), qui dolore e disincanto. Senigaglia è arrestato, ma probabilmente uscirà presto dal carcere: gli operai pensano di candidarlo alle prossime elezioni.

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