
di Michela Pellegrini
«Se tutti gli enigmi sono risolti, le stelle si spengono. Se tutto il segreto è restituito al visibile, e più che al visibile, all’evidenza oscena, se ogni illusione è restituita alla trasparenza, allora il cielo diventa indifferente alla terra.»
Jean Baudrillard
Le nuvole sono la più grandiosa e inquietante invenzione che sia mai apparsa sulla Terra. A visione conclusa si riesce a pensare assai poco o si riesce soltanto a formulare, un po’ balbettando, una simile affermazione piuttosto vertiginosa. Accade dopo aver visto il quarto episodio “Che cosa sono le nuvole?” firmato da Pier Paolo Pasolini e compreso nel film corale Capriccio all’italiana (1968). Poco più di venti minuti densi di poesia e soprattutto, in sintesi, di quella poesia tipica del suo autore il quale andava traducendola dalla pagina scritta al cinema proprio in quegli anni. Qui è abbandonata l’iniziale impronta neorealistica della prima produzione pasoliniana che, con film come Accattone e Mamma Roma, ne aveva segnato gli epigoni. Se il cinema per Pasolini doveva essere una lingua a tutti gli effetti, allora i primi due film potrebbero considerarsi molto più vicini alla prosa che alla poesia. Questa soltanto in seguito nella filmografia pasoliniana diventerà sempre più presente, come una forza tellurica. A partire dall’episodio “La Terra vista dalla Luna” compreso nel film Le streghe (1967), Pasolini sembra sperimentare un tentativo di distacco dalla realtà: questa sta perdendo pian piano la sua poesia; è troppo inquinata e lo sguardo del poeta deve posarsi verso un altrove senza temere di toccare anche degli esiti surreali. Che cosa sono le nuvole? rientra in questo sguardo nuovo, in questa esigenza di mondare gli occhi e attraverso questi sperare di mondare la realtà, di purificarla.

La scoperta non è tanto la scoperta delle nuvole, quanto più il clamore di sapere o intuire che quelle non sono che un’invenzione, un artificio, ma proprio per questo non meno insondabile e degno di amore di altri che si scoprono ugualmente innaturali: strazianti e meravigliosi, come viene pronunciato con afflato declamatorio e struggente nella scena conclusiva da un inedito Totò-Jago. È proprio la dialettica bruciante del vero/falso il tema di questa breve pellicola, complessa e poeticissima. Una dialettica della verità e della menzogna che si esplica attraverso la recita nella recita e confonde la realtà vissuta con la finzione agita dai personaggi burattini sul palcoscenico di un teatraccio di marionette.
Ma non sono soltanto verità e menzogna a contendersi il palco, perché l’apparizione di Totò è sintomatica di un’altra dualità, segno inequivocabile dell’intera opera: il dramma – quello dell’Otello rappresentato dai burattini protagonisti – e accanto a lui una smorfia a smentirlo o stemperarlo. Comico e drammatico che si fondono dando luogo a una potenza disarmante perché completamente disarmata. Questo disarmo della realtà tipicamente pasoliniano assume qui il connotato ambivalente e sinistro di tutto il comico che deforma il mondo. È Totò che nel cinema di Pasolini a partire da Uccellacci e uccellini (1966) va ad incrinare la Realtà tanto amata e cantata dal poeta-regista, soprattutto a macchiare la dura scorza del suo naturalismo e l’intero dramma shakespeariano. La tipica deformità del volto di Totò viene esasperata dal trucco verde che lo tinge tutto, e questo ormai nei suoi abiti naturali sembra finalmente incarnare – alla sua ultima apparizione sullo schermo – il personaggio archetipo che da sempre in lui si celava come riferimento assoluto: il burattino dal corpo dinoccolato e le giunture degli arti troppo visibili (forse per questo frangibili e più umane della pelle).
È il comico che si insinua e rende impossibile la tragedia di Otello ben più simile ad un basculante Amleto. Il Moro è qui un troppo ingenuo Ninetto Davoli dai riccetti di ragazzo, alle prese con la verità che non è più la verità del presunto adulterio della propria sposa, ma è la verità tout court, quella del mondo e di sé stesso: lui è veramente l’assassino di Desdemona (Laura Betti), o è il moto di ribellione contro i fili di burattino che lo tengono legato a questo personaggio? La fede nella realtà propria di Pasolini di fronte a tale domanda si buca e non aderisce più completamente alla cinepresa. C’è soltanto un grande infinito imperscrutabile. Da qui origina la poesia.

La risoluzione non è altro che lo stupore di scoprire le nuvole, poco importa se il cielo è il fondale bucato di un teatro o quello vero e imprendibile. Nel finale i solidali Jago e Otello sono veramente i padroni del creato, proprio nell’attimo in cui avvertono l’esistenza e tanto basta. L’elemento comico da smorfia si stempera nel sorriso, si stempera in un “a bocca aperta” che lascia passare la vita, le contraddizioni dell’identità e della realtà.
Eppure qualcosa di questa “pura realtà” pasoliniana resta proprio in questa incorruttibilità della vita che poi non è che l’innocenza, e che facilmente coincide con un non adattamento fiero e a volte inconsapevole, laddove ancora nulla si è lasciato sporcare e piegare dal peccato della modernità. I burattini forse non sono davvero puniti tra i rifiuti, (per una colpa nemmeno commessa), se sopra il bidone dove vengono stipati si trova scritta, sorprendentemente, una parola che sa assumere significati opposti: “MONDEZZA” che ha il senso di purezza e insieme, per una storpiatura, il suo senso opposto.
Di fronte alle nuvole che non si sa che sono, questi due personaggi, ormai senza fili, sembrano assumere quasi le forme di fanciulli che giocano il tempo o la vita. Sono diventati i derubati che sorridono e che sorridendo rubano qualcosa al ladro come canta la voce di Domenico Modugno in questo piccolo capolavoro. È un enigma dell’esistenza, non quello della gelosia che non viene sciolto, non accetta una verità così da rendere questo cielo meno indifferente agli occhi di Davoli e di Totò.

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