Reazione a catena (Ecologia del delitto), di Mario Bava 1971

di Laura Pozzi

Nel 1971 Mario Bava realizzò uno dei suoi film migliori e a detta di molti il suo capolavoro: Reazione a catena. Probabilmente è vero dal momento che lo stesso regista sempre eccezionalmente autocritico considerò l’opera una delle poche riuscite. Grazie alla libertà concessagli dal produttore Giuseppe Zaccariello, Bava oltre a firmare regia e fotografia mise mano alla sceneggiatura. Nonostante ciò la pellicola ebbe una gestazione complicata a partire da quel titolo ballerino Così imparano a fare i cattivi (in riferimento alla battuta finale, in seguito rettificata) diventato poi Odore di carne, mutato quindi in Antefatto e trasformato infine in Ecologia del delitto con il quale uscì nelle sale. Dopo il primo disastroso risultato al botteghino fu ritirato dai circuiti cinematografici, furono modificati i manifesti e per renderlo più commercialmente appetibile il titolo si tramutò definitivamente in Reazione a catena. Stavolta gli incassi furono più clementi, ma la fama di film maledetto era ormai realtà.

La contessa Federica Donati (Isa Miranda) invalida e costretta su una sedia a rotelle viene brutalmente impiccata dal marito Filippo (Giovanni Nuvoletti) mentre si aggira solitaria e nostalgica all’interno della sua dimora, una baia pomposa e fatiscente immersa in una natura selvaggia e rigogliosa. Deciso ad impossessarsene per fini speculativi, verrà anche lui ucciso poco dopo a coltellate e gettato nelle torbide acque del fiume. Nel frattempo l’omicidio della donna dopo il ritrovamento di un biglietto autografo viene riconosciuto e archiviato dalla polizia come suicidio.  Tuttavia intorno a quella baia gravitano una serie di personaggi più o meno interessati a farla propria: l’avvocato Franco Ventura (Chris Avram) con la sua amante Laura (Anna Maria Rosati) che dopo aver amoreggiato in un cottage adiacente la informa sulla ferma volontà di recarvisi per concludere l’affare, il pescatore Simone (Claudio Volontè) figlio naturale della contessa, l’entomologo Paolo Fossati (Leopoldo Trieste) e sua moglie Anna (Laura Betti) inquietante chiromante dai tratti di medusa caravaggesca, due giovani venuti a spassarsela in compagnia di due disinibite ragazze tedesche e infine Renata Donati (Claudine Auger), figlia del defunto accorsa sul posto insieme al marito Alberto (Luigi Pistilli) e ai due figlioletti per scoprire la verità sulla morte del padre, ma sopratutto intenzionata a far valere i suoi diritti sulla proprietà. Come in un truculento e macabro Grande Fratello finiranno per spiarsi ed eliminarsi a vicenda.

Il film rappresenta una svolta nella storia del giallo. In un momento di massiccia richiesta di thrilling alla Dario Argento, Bava non perde occasione di infrangere le regole fingendo di adeguarsi alle nuove tendenze per reinventare il genere attraverso la scoperta del gore (scene esplicite, sanguinarie e disgustose tipiche del cinema horror) e il lancio dello slasher movie (film con alto tasso di violenza e di sangue spruzzato sullo schermo). Si diverte da matti (e noi con lui) a fare il cattivo alterando e demolendo meccanismi e luoghi comuni da lui stesso anticipati finendo per raccontare una strana favola di sangue in cui tutti i personaggi si eliminano a vicenda nei modi più efferati e naturali possibili, proprio come delle bestie, o meglio ancora degli insetti. Uomini e insetti un connubio particolarmente affascinante per il regista sanremese e già sperimentato nello sfortunato e sottostimato Cinque bambole per  la luna d’agosto girato su commissione l’anno precedente. In quel film tratto dal romanzo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani si assiste a “un processo di tentata abolizione di una realtà assurda, il cui principale bersaglio è la persona umana in quanto segno evidente di avidità ed egoismo. Bava passa generalmente da una prima inquadratura di macchie sfocate e confuse di colore, all’identificazione attraverso la messa a fuoco degli oggetti su cui indugia volentieri e solo in ultimo a malincuore sposta l’obiettivo sugli attori”. (cit. A. Cappabianca Filmcritica, 206, 1970).

L’incipit di Reazione a catena è incredibilmente scioccante: l’anziana contessa viene impiccata da un misterioso assassino che subito dopo viene rabbiosamente pugnalato da un altrettanto misterioso individuo. Tutti gli elementi che avevano caratterizzato fino ad allora il giallo vengono esasperati fino a scomparire. La figura dell’ispettore è eliminata ancor prima di apparire e il misterioso killer vestito di nero che in Sei donne per l’assassino si aggirava indisturbato compiendo atroci delitti getta la maschera rivelandosi un uomo (o una donna dal momento che tutti i protagonisti si uccidono a vicenda) all’apparenza tranquillo che uccide a viso scoperto con la massima disinvoltura, privo di qualsiasi motivazione o trauma psicologico, ma spinto solo da quel puro interesse materiale figlio di ingordigia e brama di possesso. Ma è la natura incontaminata con il suo profilo struggente e malinconico ad avere un ruolo determinante nella storia, a scatenare gli istinti più perversi dell’uomo e a scontrarsi violentemente con l’animo crudele e indifferente dei protagonisti. E proprio da questo inedito scontro nasce la suggestione e in parte la consapevolezza che la vera responsabile dei delitti sia proprio lei: quella natura umiliata, oltraggiata e spodestata della sua autorità costretta a vendicarsi dei suoi figli tramutandoli in insetti pronti a tutto, anche a sopprimersi, pur di sopravvivere. Non è un caso che ad ogni scena particolarmente cruenta si contrappone la placida e rassicurante natura che chiusa nel suo feroce mutismo affila pazientemente le armi. A questo proposito va ricordato il dialogo tra l’entomologo e Simone che lo critica perché uccide insetti innocenti:”Quando si uccide contro le leggi di natura si diventa come dei mostri.” “Ma gli uomini non sono dei mostri” – obietta Paolo – “Abbiamo alle spalle migliaia di anni di civiltà”. “Io non c’ero” conclude l’altro.

E’ significativo notare come sia lo stesso autore a disinteressarsi dei suoi personaggi privandoli di qualsiasi sfumatura, rappresentandoli essenzialmente come mostri o vittime senza alcuno spessore. Il suo disinteresse è evidente soprattutto a livello tecnico dove l’uso sistematico del fuori fuoco è quasi irritante. Fuori fuoco inteso come negazione delle cose, come ritorno della materia in un caos indistinto e inorganico, come distanza da qualsiasi logica di narrazione. In questo film Bava non finisce di stupire imprimendo una vera e propria svolta sul tema del delitto. Se nelle opere precedenti l’ attenzione volgeva meticolosamente sulla morte e sugli innumerevoli modi di uccidere adesso l’interesse si focalizza non tanto sull’omicidio, ma sul “dopo” su quei corpi agonizzanti feriti mortalmente, sugli ultimi sussulti di vita, sull’ultimo respiro quasi a volerne carpire qualche oscuro segreto. Solo la morte è in grado di restituire un minimo di dignità e sacralità (come Simone che infilzato alla parete si piega in due come un crocifisso) o a condannare definitivamente (il conte Donati che anche da cadavere non riesce a mettere a freno gli istinti più bassi) individui ormai alla stregua di zombie. Ma il moralismo di Bava è sempre contraddistinto da una vena sarcastica, da un volersi mai prendere troppo sul serio ed il finale del film con i due bambini che sparano “per gioco” ai genitori se da una parte può apparire sconcertante, dall’altra è un modo per sdrammatizzare la storia e volgere la tragedia in farsa sottolineando l’indissolubilità delle due.

Come già scritto in precedenza Reazione a catena è un’opera seminale nella filmografia di Bava ed anche quella che si è maggiormente impressa nell’immaginario collettivo di un certo cinema americano. Il riferimento più ovvio riguarda Venerdì 13 (1980) che sembra averlo spudoratamente copiato sia nell’ambientazione (un campeggio nei pressi di un bellissimo lago) che nell’audacia e cattiveria di determinate sequenze (l’uccisione con un colpo di roncola in pieno volto a uno dei quattro ragazzi). Ma è ancora una volta Dario Argento a rielaborare con maggior estro le geniali intuizioni del suo brillante mentore: la baia, gli insetti, l’entomologo e quella mosca iniziale di cui odiamo solo il ronzio non possono che condurci sulle tracce della “grande sarcofaga” indiscussa protagonista, quattordici anni dopo, di Phenomena (1985).

il film è disponibile su Youtube

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