di Laura Pozzi

Si parte la mattina presto a bordo di un pullman dalla stazione dei treni di Stoccolma e in poco più di un’ora si arriva a Nynäshamn da dove ogni giorno partono navi dirette a Gotland, la seconda isola svedese (per estensione) nel mezzo del mar Baltico. Una volta sbarcati nella graziosa e medioevale Visby, “città delle rose e delle rovine” famosa per le avventure di Pippi Calzelunghe, si affitta un auto verso Fårösund e si arriva ad un molo dove un traghetto salpa e in pochi minuti approda nella mitica e remota Fårö, nota a tutti come l’isola di Ingmar Bergman.

“Capitai in questo paesaggio di Fårö con la sua assenza di colori, la sua durezza e le sue proporzioni straordinariamente ricercate e precise, dove si ha l’impressione di entrare in un mondo che è esterno, e del quale non siamo che una minuscola particella, come gli animali e le piante. Come sia accaduto non lo so, ma qui ho messo le radici e ora credo che la mia vita abbia nuovamente delle radici.” Bergman scopre Fårö nel 1960 all’apice di un successo mondiale decretato dall’ Oscar come miglior film straniero per La fontana della vergine. Alla fine di quell’anno viene chiamato a lavorare nel Kungliga Dramatiska Teater di Stoccolma dove all’inizio del 1961 metterà in scena Il gabbiano di Cechov e ne diventerà direttore due anni dopo. Il nuovo e prestigioso incarico avrà un impatto pressochè decisivo e in parte devastante nella sua imminente “svolta” artistica. Nel frattempo pensa ad un nuovo film, “un’opera da camera per il cinema” da ambientare su un’isola. La scelta sembra orientarsi sulle sperdute e spigolose isole Orcadi, ma dopo vari sopralluoghi decide di cercare altrove. Dopo un suggerimento accettato controvoglia si reca nell’appartata Fårö restandone rapito al punto tale da ambientarci cinque film, costruirci un suo personale teatro di posa e viverci fino alla scomparsa avvenuta il 30 luglio di tredici anni fa. Come in uno specchio (secondo premio Oscar) capolavoro unanimamente riconosciuto e cosiddetto primo film della trilogia del silenzio di Dio si apre sulle brumose e laconiche acque di un’isola dai contorni lunari. Quattro personaggi emergono dal mare, il clima appare festoso, disteso, eppure quel misterioso contesto naturale nasconde i postumi di un disastro già in atto che scopriremo nel corso della storia. La natura aspra e selvaggia dell’isola, superbamente fotografata dal maestro della luce Sven Nykvist accompagna e sottolinea con incredibile tatto e acume la drammaticità di una situazione/polveriera pronta a travolgere personaggi dilaniati da dubbi e prigionieri delle proprie angosce. Gli elementi scenografici sono ridotti all’osso, il dialogo assume un’importanza primaria, il realismo quasi esasperato rasenta il simbolismo. Il dramma si fa via via più cupo fondendosi con uno straziante delirio religioso, necessario all’albeggiare di un inaspettato miracolo finale.

Come in uno specchio rappresenta una rivoluzione nella monumentale filmografia del maestro svedese, una decisa sterzata verso il bergmanesimo più puro delle opere successive. Il lavoro sulla luce e la scoperta di Fårö sono elementi imprescindibili nel portare a compimento un discorso cinematografico sempre più radicale e conforme ai demoni interiori che tormentano il regista fin dall’infanzia. Lo stesso Nykvist indiscutibile e luminosa anima gemella ammette nella sua autobiografia Nel rispetto della luce come quel film rappresentò per entrambi l’inizio di un profondo ed epidermico mutamento di stile. Gran parte delle riprese vengono girate al tramonto in un inizio autunno particolarmente rigido. La luce naturale si erge a coprotagonista astratta e fuggevole divenendo il principale obiettivo da raggiungere attraverso la cattura di luci ed ombre tipiche dei tramonti svedesi. L’incipit è un condensato di fosche e nebbiose atmosfere, quasi a voler tendere la mano all’offuscamento interiore dei suoi protagonisti.

Persona, secondo film girato a Fårö segue le coordinate tracciate da Come in uno specchio e nasce dopo una serie di dolorose vicissitudini con il Teatro Reale culminate con un periodo di degenza presso l’ospedale Sophiahemmet a fronte di una doppia infiammazione polmonare e un’intossicazione acuta da penicillina. Durante la convalescenza Bergman vive una profonda crisi esistenziale che lo porta ad elaborare il suo capolavoro. Il film segna il distacco dal Teatro Reale e del suo rinchiudersi nella solitudine di Fårö. Questo logorante stato emotivo trova espressione nel saggio La pelle di serpente destinato originariamente come discorso per il conferimento dell’Erasmus Prize e poi pubblicato come introduzione al film. Bergman trascrive una confessione a cuore aperto, soffermandosi sull’arte e su quella fame che in lui si è sempre manifestata sottoforma di creazione artistica. Il suo atavico bisogno di attirare l’attenzione, di lasciare un segno in un mondo distratto e superficiale lo hanno trasformato in un ragazzino inquieto, dominato dalla fantasia alla continua ricerca di contatti umani, un sognatore a occhi aperti ferito, ma pieno di risorse. “Era chiaro che la cinematografia sarebbe diventata il mio mezzo espressivo. Mi resi conto che era un linguaggio che andava al di là della parola che mi mancava, della musica che non dominavo, della pittura che mi lasciava indifferente. All’improvviso avevo la possibilità di comunicare con il mondo circostante con una lingua che poteva essere parlata letteralmente da anima a anima e che in tutte le sue pieghe si sottraeva, quasi in modo voluttuoso, al controllo dell’intelletto.” Persona oltre che un capolavoro è anche e sopratutto il film della rinascita, l’opera che gli consente di apprezzare quella libertà tenuta in catene durante la direzione del Dramaten. Se il film si fosse rivelato un flop ne sarebbe uscito distrutto, mentre grazie a questo e al successivo Sussurri e grida “sono giunto al massimo a cui posso arrivare, e che in tutta libertà tocco segreti senza parole, che solo la cinematografia può mettere in risalto.”

La vergogna girato interamente sull’isola è una delle sue opere più controverse e discusse e aggiungiamo noi incomprese. Dopo la prima avvenuta il 29 settembre 1968, Bergman appunta le sue impressioni sull’agenda di lavoro: “ Me ne sto a Fårö e aspetto. Se ci si isola completamente per propria volontà, la solitudine può essere anche abbastanza bella”. Pur convinto di aver girato un bel film, il tormento, l’emarginazione e l’abituale vuoto interiore sembrano non dargli tregua. Aspetta con trepida angoscia l’accoglienza critica che non tarderà ad accusarlo di qualunquismo nei confronti della guerra. Fårö, per tutti la Cinecittà di Bergman è ancora una volta la prescelta, la testimone privilegiata di una storia ambientata durante un conflitto senza nome e senza connotazione geografica, una “piccola guerra” dove la confusione è totale e dove nessuno sa niente. Al maestro non importa citare espressamente il Vietnam (da qui l’accusa di qualunquismo), le guerre possiedono tutte la medesima violenza e provocano senza eccezione i medesimi effetti: morte, distruzione, degrado morale. Con Passione, si completa quella che viene definita la tetralogia di Fårö, in cui si rafforza l’impietosa descrizione dell’inferno che c’è sulla terra. Il film analizza quattro inferni privati: quello di Anna che nel tentativo di esorcizzare la sua speranza delusa si rifugia nella menzogna, il fallimento di Andreas che lo condanna ad una lacerante solitudine, l’inferno di Eva contrassegnato da instabilità e incapacità di affrontare i problemi sedimenta su ambiguità e disperazione e infine Elis, l’unico a suo agio con il suo inferno privato fatto di egoismo,violenza e infelicità. Questa umanità alla deriva svela il lato oscuro e trasforma Fårö in una sorta di limbo, un regno dei morti dove è la natura stessa ad essere ostile e in guerra con se stessa. Stavolta la sofferenza e crudeltà non risparmia neppure gli animali: il cane impiccato, il cavallo bruciato, le pecore agonizzanti, l’uccello ferito rappresentato un’interessante snodo narrativo su cui proiettare le sofferenze degli uomini. Andreas è un uomo che ha perduto tutto, ha contratto il cancro dell’anima e non riesce a liberarsene. E infine Scene da un matrimonio ideato come format televisivo a sei puntate e trasformato dallo stesso Bergman in un film di quasi tre ore. Le prime due puntate furono interamente girate negli studi della Cinematograph a Fårö e parte a Stoccolma. E’ facile intuire come la magia di quest’isola sperduta, difficilmente rintracciabile su una cartina geografica, sia stato il rifugio ideale di un’artista in continua lotta con le sue ossessioni. Nel corso del tempo Fårö è divenuta luogo di pellegrinaggio per i cineasti di tutto il mondo e la fondazione Bergman accoglie ogni anno artisti, scrittori, fotografi per offrire quest’angolo di paradiso dove poter nutrire senza compromessi la propria creatività. O dove sedersi in riva al mare, contemplando un tramonto, con il vento tra i capelli e l’inconfondibile luce nordica negli occhi, in compagnia dei Raukar spettacolari e maestosi faraglioni rocciosi, silenti e suggestivi testimoni di un’irripetibile incanto.

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