di Flavia Salierno
Yorgos Lanthimos ci ha abituato sicuramente alla visione di veri capolavori, e Dogtooth non delude le aspettative. Si tratta, però, di una visione “in differita”. Lo spettatore italiano, infatti, riesce a vedere Kynodontas (questo il titolo originale) solo nel 2020, più precisamente dal 27 agosto, pur essendo questo un film del 2009. Nello stesso anno è stato già vincitore del premio ‘Un Certain Regard’ a Cannes e candidato all’Oscar per il miglior film straniero. Dogtooth ha decretato la collaborazione tra Lanthimos e il geniale sceneggiatore Efthymis Filippou, a sua volta candidato all’Oscar per la sceneggiatura originale di The Lobster, dello stesso regista.

Anche la genialità di Lanthimos, così, si vede già dalle sue prime opere, e in quest’ultima l’eccezionalità del suo talento emerge dalla raffinata particolarità della descrizione di quello che solo uno psicoanalista vede molto spesso, ma che è difficilissimo da spiegare ai non addetti ai lavori.
In un sobborgo di Atene un padre autoritario e una madre a lui sottomessa crescono i propri tre figli dentro casa, una villa con giardino protetta da un muro altissimo, senza mai farli uscire, per tenerli al riparo dal mondo. Le due figlie e il figlio vivono reclusi, pensando un mondo che non trova corrispondenza nella realtà di fuori, mentre la madre è deputata a trattenerli ‘dentro’ facendo credere loro che ‘fuori’ è il pericolo. L’unico a poter uscire, per mantenere la famiglia col suo lavoro di dirigente di fabbrica, è il padre, che manipola i figli mentendo e insegnando loro parole con significati diversi da quelli con cui esse sono conosciute nel mondo di fuori. La situazione cambia quando in casa arriva un nuovo elemento, una donna assunta per soddisfare le esigenze fisiche del figlio maschio.

Il regista greco riesce nell’intento di far vedere con gli occhi di uno psicanalista la perversione di questi rapporti familiari, non solo attraverso l’incredibile caratterizzazione psicologica dei personaggi, ma anche grazie all’intera costruzione simbolica delle immagini del film, a partire dai confini: per esempio, le alte barriere che circondano la “villa degli orrori”, la casa dove i personaggi del film, nonché membri della famiglia, si muovono, restando contemporaneamente prigionieri.
La prigione, infatti, è data da un sistema a funzionamento psicotico, dove tutti sono coinvolti nel gioco rigido di interazioni che mantengono una certa regolarità. La famiglia è un “sistema”, in cui le persone sono collegate fra loro e interagiscono definendo le reciproche relazioni come regole: confini, appunto. E all’interno di quelli tutto è possibile. Perché dentro quella specifica realtà, che trascende le qualità dei singoli membri, si conserva una stabilità omeostatica, senza la quale il sistema rischierebbe di disgregarsi. Lanthimos mette lo spettatore nella condizione di varcare quei confini, per entrare nel funzionamento folle di una famiglia in cui persino il sovvertimento del linguaggio è il mezzo per mantenere fuori il mondo esterno, e per confondere radicalmente quello interno.

“Le parole nuove di oggi sono: mare, autostrada, escursione e carabina. Mare è una poltrona in cuoio, autostrada è un vento molto forte, escursione è un materiale durissimo per fare i pavimenti e carabina è un bellissimo uccello bianco”.
Come un macigno indigeribile arrivano le voci dei protagonisti della follia, che vivono quella come una giusta realtà. Perché anche il funzionamento perverso ne ha una propria, dal punto di vista di chi è direttamente coinvolto. Sembra di entrare in un quadro surrealista, dove – tra Buñuel e Dalì – Lanthimos si pone sballottandoci tra il sorriso amaro di un nero humor e l’atterraggio violento sulla terra folle di certe realtà. ‘Duro’, forse, è il termine che lo descrive meglio, perché del ‘surreale’ conserva unicamente l’atmosfera di ciò che va fuori dal controllo della ragione. E resta qualcosa che, forse, da lontano o vicino, direttamente o indirettamente, abbiamo già visto o sentito, o anche tristemente vissuto.
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