di Andrea Lilli
- In sala dal 5 ottobre –
Trent’anni dopo il successo de Le Grand Bleu (1988) di Luc Besson, il grande schermo torna ad indagare la vita e il pensiero dell’apneista Jacques Mayol (1927-2001): il 5 ottobre esce in Italia il docu-film Dolphin Man (2017), distribuito da Wanted Cinema. Già era stato il documentario Blue Symphony (2008) di Takahiro Mitsuyoshi a mantenere vivo l’interesse su Mayol, recordman popolare in tutto il mondo ma personaggio atipico, complesso, non riducibile alle sole categorie dello sport e della ricerca scientifica, pur essendone stato protagonista.

Cinesi e giapponesi lo chiamavano “il delfino francese”. Nato a Shanghai, il piccolo Jacques passava le vacanze in Giappone. Fu introdotto all’antica arte dell’immersione in apnea giocando al mare coi figli delle Ama (“donne di oceano” in giapponese), tuffatrici che si guadagnavano il pane raccogliendo ostriche sul fondo marino. Iniziò presto a girare il mondo, aveva sette anni quando nel Mar Rosso vide per la prima volta i delfini. Fu una grande emozione: Ancora ricordo come mi batteva forte il cuore, nel vederli saltare e correre in acqua.
Buona parte della sceneggiatura si basa su filmati d’archivio e sugli scritti di Mayol, letti dalla voce fuori campo di Jean-Marc Barr, l’attore che lo interpretò ne Il grande blu. Quel film, che aprì il Festival di Cannes 1988 suscitando un clamoroso quanto imprevisto successo di pubblico, era incentrato soprattutto sulla sfida tra Mayol e il rivale principale, Enzo Maiorca (Molinari nella finzione), qui invece il “delfino francese” è raccontato a tutto tondo: il pensiero insieme alle azioni, le crisi e i successi, le fragilità e le solide convinzioni, le donne, i figli, l’allegria, la depressione fatale. Ne L’uomo delfino viene ricostruita, grazie anche agli interventi dei testimoni diretti, la vita avventurosa di un uomo inquieto che girò il pianeta facendo molti mestieri, prima di trovare un equilibrio interno dedicandosi completamente alla sua più grande passione. “Volevo vivere su un’isola tropicale, tuffandomi nelle acque trasparenti tutto il giorno, nudo, libero. Mio padre si rassegnò presto al fatto che pensavo ad una cosa sola, il mare”. Zaino in spalla, partì per il Marocco, la Danimarca, la Svezia, il Canada. Arrivò in Florida sposato a una danese, trovò lavoro nel Seaquarium di Miami, finalmente sott’acqua tra i pesci e tra i delfini. Li amava quei mammiferi marini dotati non di branchie ma come noi di polmoni, chiamati delfini. In particolare Clown, il più intelligente e sensibile, che “m’insegnò a trattenere meglio il fiato, a lasciarmi affondare e diventare tutt’uno con l’acqua, senza sforzo. Non volevo che diventasse un cane addestrato o un animale da laboratorio“.

Amava anche i record mondiali di immersioni: tra il 1966 e il 1983 Mayol ne stabilì diversi, con un solo respiro, senza bombole per l’ossigeno, l’ultimo di 105 metri raggiunto all’età di 56 anni. Ma non era tanto lo spirito di competizione a spingere il francese sempre più in fondo, quanto l’effetto terapeutico. Immergersi lo portava in un’altra dimensione, dove in silenzio poteva ritrovarsi.
Il regista coinvolge noti campioni tra cui l’italiano Umberto Pelizzari e riesce a trasmetterci il fascino dell’apnea, la sospensione del respiro nell’acqua che porta a una diversa consapevolezza di sé e del mondo marino. Per le civiltà occidentali la respirazione è solo un processo fisiologico. Per quelle orientali è molto di più: il momento che unifica corpo e mente, integrandoli nell’ambiente circostante. Non a caso Mayol si servì dello yoga per allenarsi meglio, e superare limiti che prima di lui sembravano invalicabili. I fisiologi dicevano che era pericoloso andare oltre i 50 metri. Solo lui e Maiorca vollero andare oltre, fu così che cominciò la sfida.
Amava anche le donne. Divorziò dalla moglie lasciandole i due figli ancora piccoli e si allontanò da Miami, iniziando una carriera di cercatore d’oro e di tesori sommersi, cacciatore di aragoste, autista di dive hollywoodiane, regista nascosto di sexy film sottomarini (L’esca del triangolo), eccetera. Le sue imprese conquistavano sempre più titoli sui giornali. Anche quando sposò e perse Gerda. Un grande amore, tragicamente interrotto a Miami da uno squilibrato, incrociato per caso in un centro commerciale. Da allora Jacques Mayol non fu più lo stesso. Si sollevò dalla depressione grazie alla permanenza in un tempio buddista giapponese; la filosofia zen lo aiutò anche a migliorare la tecnica subacquea: “se pensi troppo il cervello consuma più ossigeno. Se invece lasci andar via i pensieri, le chiacchiere mentali quotidiane, puoi stare sott’acqua più a lungo“.
Jacques Mayol univa agonismo e visione del mondo: per lui immergersi in mare profondo, in quel buio e silenzio era un viaggio interno. “L’origine della vita nel pianeta è nel mare che circonda la terra, così come nel liquido amniotico dell’utero è l’origine di ogni individuo. L’oceano ce lo portiamo dentro, dobbiamo solo scoprirlo in noi”. E ancora, allargare i tempi e gli spazi dell’immersione significava recuperare e rilanciare un rapporto armonico tra l’uomo e il mare; mostrare al mondo cosa vuol dire essere tutt’uno con la natura e quindi considerarla degna di protezione.
Non bastarono tuttavia i traguardi raggiunti, i riconoscimenti, la fama a scongiurare l’ultima, cupa, determinazione. Come gli amati delfini si allontanano dal gruppo quando sentono giunto il tempo di morire, Jacques Mayol decise di andarsene senza spiegazioni a 74 anni, solo nella sua villa di Capoliveri, a picco sul mare dell’Isola d’Elba.

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