di Bruno Ciccaglione

Elle è un film duro e fuori dagli schemi, su una donna che nonostante una vita sconvolta fin dall’infanzia da una violenza feroce e perversa, ha costruito un presente di emancipazione ed una carriera di grande successo. Stuprata da uno sconosciuto incappucciato all’inizio del film, rifiuta il ruolo di vittima e prova a scrollarsi di dosso questo ennesimo brutto episodio della propria vita, continuando a vivere in libertà le sue relazioni sessuali e a gestire con la consueta determinazione il ruolo di potere che si è costruita, così come le relazioni familiari. Troverà il suo modo, come sempre, di andare avanti e preferisce tenersi alla larga del tritacarne dei media e della “giustizia”, di cui conosce, suo malgrado, la ferocia.

Quando si accorge che il suo stupratore continua a spiarla ed a minacciarla, decide di dargli la caccia, ma anche qui, in modo non convenzionale: non cerca vendetta, vuole forse solo fermarlo. È il controllo della situazione e della propria vita, che vuole recuperare. Quando scopre l’identità del suo stupratore, ancora una volta, non lo denuncia, ma anzi inizia con lui un perverso e pericoloso gioco erotico e di ruolo. Il film oscilla continuamente tra un tono da commedia borghese ricca di ironia e uno da thriller malato e perverso: una vera commedia degli orrori, in cui le scene delle violenze sono dense di crudezza e verità come raramente accade di vedere.

Non sorprende che l’intento iniziale del suo autore, di realizzare Elle negli USA, non sia andato a buon fine. Il produttore Saïd Ben Saïd aveva già lavorato con Polanski, De Palma e Cronenberg e quando contattò l’olandese Paul Verhoeven proponendogli di adattare per il cinema il romanzo francese Oh di Philippe Djian, a Verhoeven – che vive ormai negli USA da molti anni – venne naturale pensare ad una traslazione della storia in America. Il lavoro di sceneggiatura fu avviato in inglese ed il primo trattamento cominciò ad essere proposto ad alcune attrici. Fu presto chiaro che nessuna attrice statunitense avrebbe accettato il ruolo della protagonista, eppure era evidente che la scelta dell’attrice fosse la cosa più importante del film: tutto il film dipendeva da quanto credibile, autentica e intensa sarebbe stata l’interpretazione di questa donna che è una donna forte eppure è piena di ambiguità e fragilità, che rifiuta il ruolo della vittima e che tuttavia porta in sé abissi di cui nessuno conosce la profondità, ma che lei ha imparato a gestire. Il fatto che il film non sia né voglia essere un film sulla vendetta e neppure sulla ricerca di una giustizia, lo rendeva ancora più difficile da accettare negli Stati Uniti e quindi Verhoeven decise di tornare al punto di partenza: Parigi.

Isabelle Huppert ha raccontato di essersi proposta lei, per il ruolo della protagonista, non appena saputo che la realizzazione del film sarebbe avvenuta in Francia ed in francese. Conosceva ed aveva amato il romanzo e sentiva che questo ruolo le fosse congeniale. A Verhoeven ed al film, d’altra parte, non poteva capitare fortuna migliore. Elle è uno dei più eclatanti esempi di quanto il lavoro di una attrice o di un attore possa non solo determinare il valore di un film, ma di quanto gli attori possano davvero diventare coautori di un film. Sul set il regista e l’attrice hanno stabilito un rapporto molto particolare: Verhoeven dice addirittura di non aver diretto Huppert, a sottolineare come l’attrice sia stata libera di esprimersi senza vincoli; Huppert, d’altra parte, ha detto che ha amato essere diretta in modo non convenzionale, senza troppe spiegazioni verbali, ma attraverso la creazione del giusto clima sul set e la percezione della fiducia che sentiva il regista avesse riposto in lei. Il risultato è tutto sullo schermo e non a caso l’attrice ha sfiorato l’Oscar, vinto il Golden Globe ed ha avuto molti altri riconoscimenti: una interpretazione straordinaria!

Molto si è discusso sulla figura femminile protagonista di questa storia. Qualcuno ha parlato di una donna postfemminista, cercando in qualche modo di delineare un profilo teorico che la definisca o una posizione ideologica che sia coerente con le scelte che il personaggio realizza. Sia Verhoeven che Huppert respingono una interpretazione di questo tipo, ritenendola troppo rigida. Anche per questo la protagonista Michèle non è una vendicatrice, né un modello cui ispirarsi (anzi, è difficile riconoscersi nel suo comportamento). Molto più rilevante, invece, è il sostrato psicanalitico della protagonista, che il film illustra, pur senza assumerlo come la causa dei comportamenti e delle reazioni di Michèle nelle diverse circostanze (anche il rapporto che ha con i propri genitori è un chiaro indicatore di come lei abbia lottato e vinto contro i traumi del passato). Esplicito ed evidente è il conflitto di genere, che qui si intreccia in modo inusuale con quello di potere (memorabile la scena in cui Michèle, convinta di aver individuato in un suo dipendente lo stupratore che la perseguita, lo costringe a mostrarle i genitali per vedere se, come il suo stupratore, è circonciso).

Gli uomini che vediamo nel film sono o violenti, feroci e completamente concentrati su sé stessi, oppure ridicolmente banali, scarsamente intelligenti, volgari. Anche quando fanno la cosa giusta, come toccherà al figlio di Michèle nel finale, gli uomini non capiscono mai davvero cosa stanno facendo. Le donne invece capiscono tutto, anche quando fanno la cosa sbagliata: si pensi alla cattolicissima moglie dello stupratore, che sapeva perfettamente delle violenze che suo marito infliggeva ad altre donne, ma che non si è mai sognata di denunciare; o alla stessa Michèle che tradisce la sua migliore amica andando a letto col marito solo perché le andava di fare sesso. Eppure anche quando non riescono ad amarsi sessualmente, anche quando si sono tradite, è solo fra donne che sembra possibile un po’ di dolcezza, in questo mondo che con un azzardo potremmo definire postmaschilista.
