di Roberta Lamonica
‘There is no such thing as truth… Everyone has their own truth.’

Tonya Harding, una Margot Robbie in una grande prova d’attrice, rende chiaro fin da subito che lo spettatore vedrà non ‘la’ verità dei fatti ma ‘una’ verità o forse solo qualche frammento confuso, sovrapponibile o contrastante di essa. Lo stesso regista presenta il suo lavoro come “based on irony-free, wildly contradictory, totally true interviews with Tonya Harding and Jeff Gillooly”. E infine anche il titolo stesso del film ‘I, Tonya’, rimanda a un giuramento o alla testimonianza a un processo.

‘I, Tonya’ è un film indipendente del 2017, diretto da Craig Gillespie (‘Lars e una ragazza tutta sua’) e sceneggiato da Steven Rogers (‘Kate & Leopold’, ‘P.s I love you’). Premio Oscar a Allison Janney, infinita nei panni dell’anaffettiva LaVona Harding, madre di Tonya, il film di Gillespie è incentrato sulle vita della pattinatrice americana Tonya Harding, al centro di uno scandalo sportivo nel 1994 per essere stata individuata come la mandante dell’aggressione alla collega e connazionale Nancy Kerrigan.
I, Tonya è strutturato come un mockumentary in cui vengono magistralmente montate finte interviste incrociate ai protagonisti delle vicende, ispirate a quelle reali fatte nei corso degli anni ‘90, intervallate da momenti significativi della vita privata della Harding.

Il film ha la confezione di un biopic sportivo ma è privo degli aspetti principali che caratterizzano il genere: la sequenzialità cronologica del racconto e la disciplina sportiva come metafora del successo nella vita. Nell’America della presidenza di Reagan prima e di Bush poi, nell’America in cui ‘per gli americani non c’è mai un secondo atto’, nell’America che si impegna a dare di sé l’immagine patinata e plastificata del suo Presidente-attore, la bifolca Tonya Harding non ha scampo. Come le dice in un momento di rara verità un giudice dopo una gara: ’ Non è mai stato SOLO per il pattinaggio, Tonya…’. E in effetti la Harding, pur avendo doti atletiche incredibili (la seconda donna al mondo ad aver eseguito un triplo axel), rappresenta tutto ciò che gli Usa degli anni ’80-’90 cercano di nascondere: una certa mancanza di gusto e classe, il fallimento delle politiche familiari, educative e sociali, insomma quella ‘white trash’ da non mostrare, specie davanti al mondo intero.

Davvero notevoli nel film le prove di Margot Robbie, Allison Janney e Sebastian Stan.
La Robbie mortifica la sua sana e solare bellezza australiana per rendere la rabbia e la volgarità di Tonya, la sua bramosa avidità di successo e di sentimenti reali e tenerezza al contempo. ‘Questo non l’ho mai fatto’, ‘non è colpa mia’, afferma dopo episodi della sua vita che la vedono aggredire e insultare tutti coloro che si mettono sul suo cammino, con un piglio innocente e infantile che denunciano un passaggio dall’infanzia all’età adulta non graduale e armonioso ma traumatico e irrisolto. Lo sguardo in camera inespressivo e sfrontato, mai in cerca di attenuanti, trasmette la desolata ma dignitosa accettazione della caduta di una dea che forse dea non era mai stata ma che un po’ ci aveva creduto.

La Janney interpreta LaVona, madre caustica e acida di Tonya, quella contro cui la Harding scaglia uno sferzante: ‘Tu mi hai maledetta!’. Il suo è un personaggio coeniano per definizione e ricorda moltissimo la Mildred Hayes interpretata dalla Mcdormand in ‘Three Billboards outside Ebbing, Missouri’. Una madre sola, con un passato di violenza e senza alcun sostegno, LaVona tenta di dare alla figlia un futuro diverso e costruisce la carriera di Tonya più sul sacrificio e la privazione che su un reale talento o inclinazione. E in effetti più di una volta si ha quasi l’impressione che il pattinaggio artistico sia stata la strada della Harding per ragioni quasi esclusivamente di ‘opportunità’. LaVona La umillia, la inganna, la tradisce e di fronte alla figlia che le chiede se le abbia mai voluto bene, risponde laconicamente: ‘

Stan, invece, riesce a tirar fuori dal cilindro una prestazione inaspettata che lo affranca dall’immagine di supereroe che si è cucito addosso. Il personaggio controverso che interpreta (il marito della Harding, Jeff Gillooly) e che ha rovinato la vita a Tonya, risulta ora come un innamorato disorientato, ora come un mostro violento, ora come un immaturo patologico. Domina e subisce a fasi alterne tutte le persone con cui si relaziona in una schizofrenia interpretativa che sorprende, diverte e a tratti terrorizza lo spettatore. Davvero oltre ogni aspettativa.

‘I, Tonya’ è un film da vedere. E’ vero: non è un film nuovo, non è un capolavoro, non è completamente originale. Gillespie attinge al cinema che gli piace: la black comedy alla Fargo dei fratelli Coen e tecnicamente mostra un certo gusto per le carrellate in avanti di Scorsese. Ma nonostante il rischio del ‘già visto’, il regista aussie è originale nello sfondare la quarta parete ripetutamente, richiedendo un coinvolgimento attivo dello spettatore nelle vicende sportive e umane della sua protagonista in modo del tutto sorprendente e portandolo a provare una palette di emozioni estremamente ampia e variegata per tutta la durata del film.

L’ironia di cui il film è pervaso con l’intenzione di non cedere alla commiserazione o alla patetica vicinanza alla sua protagonista, non sposta il focus dal doloroso ritratto della solitudine di una donna incatenata a un destino di fallimento che emerge prepotentemente. Un’ outsider che infastidiva per il solo fatto di esistere. Tonya Harding ricorda uno dei personaggi di un romanzo di Thomas Hardy, deterministicamente nati per fallire, una specie di Tess dei nostri giorni. Nel giro di poco tempo la Harding divenne il mostro da cui prendere le distanze, uno di quegli individui che gli Usa cancellano dopo aver triturato senza che di loro resti nulla se non un ricordo sbiadito e indistinto.

Una donna violata e abusata fisicamente e psicologicamente, Tonya, incapace di sfuggire al suo aguzzino (che, fra l’altro, non aveva la complessità psicologica dell’aguzzino) anzi, costretta a rifugiarsi in lui per corrispondere al modello di ‘wholesome American family’ che il comitato olimpico americano le chiedeva. ‘I,Tonya’ capovolge l’assunto secondo il quale ‘ You can’. Non è vero, non si può solo volere qualcosa, si devono avere i mezzi per ottenerla e il sostegno di uno stato che dovrebbe proteggere e incoraggiare i suoi figli anche quando sono ‘brutti, sporchi e cattivi’, appunto.

Gillespie non ci dice cosa pensare di Tonya Harding, non gli interessa il nostro giudizio. Ciò che gli interessa è invece mostrare senza mezzi termini, il modo manicheo in cui l’America ama o odia i suoi figli. Senza mezzi termini.
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