Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti (2015)

di Laura Pozzi

Quello di Gabriele Mainetti è di sicuro uno degli esordi alla regia più innovativi, originali e accattivanti degli ultimi anni, complice un certo Jeeg Robot d’acciaio, che nel 2015 sfodera un micidiale maglio perforante sulla festa del cinema di Roma. Un nome che al solo pensiero, suscita una torrenziale pioggia di emozioni rievocando vivide suggestioni per chi nei famelici anni ’80 al ritorno da scuola restava incollato davanti alla Tv nella spasmodica attesa delle capriole volanti di Hiroshi Shiba che sospeso in aria “agganciava” i componenti lanciati dal big shooter di Miwa per trasformarsi nel mitico robot. “Noi restiamo tutti con te, perché tuuuuu, tu sei Jeeg”. Mainetti classe 1976 prende alla lettera le note canterine della celeberrima sigla e al pari di un Tarantino nostrano si appropria e mette al servizio della settima arte quell’immaginario che l’ha nutrito e coccolato fin dall’infanzia. Laureato in storia e critica del cinema, prima di compiere il grande salto dietro la macchina da presa, è stato attore (Il cielo in una stanza, Un altro anno e poi cresco, Ultimo stadio), è diventato produttore (fondando la Goon Films, casa di produzione dei suoi film), si è iscritto alla Saint Louis College of Music di Roma per comporre personalmente le musiche delle sue opere e ha realizzato due pregevoli cortometraggi Basette (2008) e Tiger boy (2012) scritti da Nicola Guaglianone e assolutamente da recuperare su youtube per capire come il suo esordio travolgente non sia frutto di una semplice e nostalgica reminiscenza infantile, ma sia figlio di un background socioculturale di un giovane curioso, ironico, lungimirante, fatalmente sedotto e magnificamente ossessionato dalla materia cinematografica.

Siamo a Tor Bella Monaca (ma non solo), estrema periferia di Roma. Enzo Ceccotti  (un Claudio Santamaria dalla voce baritonale e da un fisico corazzato da 20 chili in più), è un ladruncolo, cupo e misantropo, irrimediabilmente chiuso in sé stesso. Disabituato alla vita, privo di amici, allergico al genere umano per cui prova una sana e consapevole repulsione, le sue uniche distrazioni sono film porno e budini alla vaniglia. Durante un colpo finito male, cade nelle poco invitanti acque del biondo Tevere restando contaminato da un’ignota sostanza che lo dota di potentissimi e misteriosi super poteri in grado di tenere sotto scacco l’intera città, ostacolando e ridimensionando le mire assolutiste dello Zingaro (un Luca Marinelli da antologia, entrato nell’immaginario collettivo al pari di Jeeg) un sanguinario villain, partorito non dalla diabolica mente della regina Himika, ma da una Roma marcia, maleodorante, cruenta che affina nel sottobosco urbano gli artigli per imprimere una nuova devastante identità.

Fra i due antagonisti si colloca, l’ingenua e abusata purezza di Alessia (la gotica e vagamente baviana Ilenia Pastorelli) la prima ad intuire quei super poteri che la portano a proiettare sulle poco avvenenti fattezze di Ceccotti l’iconico Jeeg, venuto a salvare il mondo dal giorno delle tenebre. L’improbabile incontro tra una bella e una bestia di periferia germogliato fra le ceneri di una sanguinosa resa dei conti si tramuta nel disperato e inconscio bisogno d’amore di un uomo assuefatto ad un’errata concezione di sé, fatalmente rassegnato all’innaturale incapacità di relazionarsi col mondo e con gli altri. Uno dei punti di forza del film è la tessitura di una componente narrativa spregiudicata e irriverente che fonda l’elemento fantastico con un moderno e inedito neorealismo di periferia. Sfruttando la leggendaria popolarità dell’anime giapponese, Mainetti “illude” la storia di un ipotetico quanto futile supereroismo americano, per poi nazionalizzarla su un territorio tipicamente made in Italy. E’ importante sottolineare come quest’aspetto contribuisca a sfatare le lapidarie e bigotte convinzioni basate sulla difficoltà del nostro cinema di confrontarsi con generi andati irrimediabilmente perduti o considerati d’appartenenza altrui.

Jeeg Robot è un film orgogliosamente italiano, intriso di simbolismo nostrano (il calcio e lo scontro finale allo stadio Olimpico durante il derby capitolino ne sono l’emblema) che non ha nulla da invidiare ai blasonati eroi d’oltreoceano. Così come la sibillina concezione di un potere inteso come privilegio personale e non come servizio da rendere al prossimo. Raramente in Italia a super poteri corrispondono super azioni e Ceccotti non fa altro che confermare la regola: una volta acquisiti continuerà per buona parte della storia a delinquere, cambiando rotta grazie alla lucida follia della sua improbabile compagna. Se di influenza si può parlare, la troviamo semmai nella controversa figura dello Zingaro, (dichiaratamenente ispirata alle fattezze del Buffalo Bill, interpretato da Ted Levine ne Il silenzio degli innocenti) un cattivo dal look sofisficato, sessualmente ambiguo, sedotto dalla vulcanica irruenza di vere pioniere della musica italiana quali Gianna Nannini, Nada, Loredana Bertè ma sopratutto Anna Oxa audacemente riproposta da un Marinelli simil Bowie in Un’emozione da poco. Una delle tante scene cult che introduce in modo grottesco una tematica scomoda, ma pericolosamente attuale: lo Zingaro nella sua esasperata malvagità rappresenta la degenerazione dei nostri tempi. I famosi e agognati quindici minuti di celebrità, l’ossessione per le visualizzazioni web, le insulse comparsate in altrettanti inutili talk show domenicali e ora la possibilità di impadronirsi di super poteri, lo hanno reso un mostro, che solo un emarginato e disadattato sociale come Ceccotti/Shiba, è in grado di contrastare. E la scelta di affidare il ruolo di Alessia ad un esordiente proveniente dalla casa del Grande fratello dimostra come il regista oltre ad aver ben chiara la problematica, si diverta non poco a sbeffeggiarla e a renderla “commestibile”.

Una scelta di casting discutibile, così come la tanto chiacchierata scena di sesso tra i due protagonisti: per molti uno stupro, per altri (compreso chi scrive), l’ennesima dimostrazione di un uomo incredibilmente disarmato nei confronti dell’amore. Ma tutto il film, come dichiarato dallo stesso regista ruota intorno alla cosiddetta scena madre, quella in cui Enzo tragicamente tornato al punto di partenza trae in salvo una bambina destinata a perire all’interno di un auto in fiamme. E’ solo in quel momento che Ceccotti prende coscienza dell’altro sé, quello invocato tante volte da Alessia, quello che lo induce a seppellire una volta per tutte quella fatal flaw, quell’idea sbagliata e distruttiva di sè per accogliere definitivamente la sua vera identità, capace di sconfiggere il nemico in nome della collettività e abbracciare sul finale quella Roma “Capoccia” mai così bella e mai così infinitamente grande.

In attesa dell’uscita in sala di Freaks Out prevista per il 16 dicembre è possibile rivedere il film su Raiplay.

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