
di Antonio Sofia
Corpus Christi del polacco Jan Komasa è tutto negli occhi di Bartosz Bielenia: uno sguardo che non dice, non spiega, ma coagula il pathos del giovane Daniel, protagonista di questo apprezzato film del 2019 (candidatura all’Oscar come miglior film straniero e premio Edipo Re per l’inclusione). Lo seguiremo mentre si agita, si droga, balla o dice Messa; vi leggeremo la determinazione a farsi carico del riscatto di una comunità di anime ferite. Ci innamoreremo del suo volto gentile e dovremo temerlo, trasfigurato dalla ferocia.
In una magistrale sequenza, la sagoma di Daniel e quella del Cristo crocifisso sono allineate dinanzi ai devoti e allo spettatore: per la fede come per il cinema, una “messa” in scena dal potente impatto emotivo che rapisce e persuade.

D’altra parte, Corpus Christi si ispira a fatti realmente accaduti, come i Vangeli, e i Vangeli sono riferimento imprescindibile per comprendere a fondo l’evoluzione e la rivoluzione di Daniel.
Ma chi è Daniel?
Un giovane irrequieto e violento che lascia la falegnameria di un Riformatorio con i migliori propositi di condotta e il rimpianto di una via seminariale preclusa dal reato commesso: si sperde al primo respiro per il mondo libero e, terrorizzato, si finge prete in un piccolo paese sviluppatosi intorno a un’unica grande segheria. A causa del crollo fisico di un parroco corrotto da sensi di colpa, Daniel si erge, giovanissimo, come auctoritas morale della comunità e ne sfida apertamente il potere politico ed economico.

Il paese è lacerato dalle conseguenze di un controverso incidente d’auto: vi hanno perso la vita sei ragazzi e un uomo, non nativo del posto, a cui è negato il funerale perché ritenuto colpevole dell’impatto.
Daniel desidera come un figlio, ispira come un padre: forza i riti avvelenati dalla consuetudine e dal lutto, adotta espressioni e fisicità travolgenti, interpreta la menzogna del suo ruolo per restituire autenticità alla fede come superamento, solo in apparenza paradossale, del bisogno di una verità più vera.
Nella sua circolarità tragica ma non priva di dolcezza, impreziosita da luminosi sorrisi, il protagonista di Corpus Christi realizza una analogia del mistero trinitario: è figlio solo, corpo segnato che deve espiare la sua natura precaria; è spirito implacabile, irriducibile, inteso a collegare gesto e morale; è padre, nella cura dei suoi figli, riferimento traballante, evanescente, destinato a negarsi nello stesso atto della rivelazione.

All’interno di una sceneggiatura magistrale, grazie allo splendido mestiere di Komasa, il cinema esplode alla vita e lo fa nei modi dell’affresco sociale spietato, della peripezia mistica, della parodia sensibilissima.
Molto è merito dell’interpretazione attoriale di Bartosz Bielenia: poche volte ho assistito a una prova così determinante per la riuscita di una pellicola, nonostante la regia sia comunque precisa, misurata in ogni cadenza e colore. Nota di merito anche per le co-protagoniste Aleksandra Konieczna e Eliza Rycembel (splendida voce in una straziante canzone folk che riempie il cuore e già curiosamente protagonista nel 2016 di un film francese di Anne Fontaine dal titolo Agnus dei).

Corpus Christi è un bel film, ma soprattutto è il film di Daniel, o padre Tomàsz, come si fa chiamare: un grande personaggio cinematografico, destinato a restare nella memoria, il dono di un attore di cui spero sentiremo ancora parlare.
Un’ultima nota. Nel 2020 Jan Komasa non raggiungerà lo stesso livello con The hater, distribuito da Netflix, che si rivela tuttavia un interessante “negativo” di Corpus Christi: il protagonista, Tomàsz (!) Giemza, interpretato da un convincente Maciej Musialowski, agisce in una Polonia metropolitana, profondamente diversa, ed è precisamente il ritratto opposto del Daniel di Bielenia. Potrebbe essere uno dei fedeli che Daniel redime, per quanto il dolore e il rancore ne animano la parabola narrativa e le macchinazioni distruttive. The hater prende a pretesto la comunicazione social e le fake news per approfondire la menzogna orientata dall’odio, che nega qualsiasi possibilità di intesa su ciò che è vero e ciò che è falso, e rende l’etica subalterna all’esercizio di potere.
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