di Laura Pozzi

“Io e mia sorella fu un film di grande svolta nella mia carriera. Abbandonai Roma e abbandonai le caratterizzazioni per girare una commedia più a largo respiro ed europea… Volli accanto a me Ornella Muti, perché ne volevo esaltare l’aspetto della ragazza non più “fatale”, ma quella della porta accanto: girò il film senza trucco e riuscì perfettamente ad essere se stessa”. È il 1987, Carlo Verdone, giunto alla settima regia dopo i postumi poco inebrianti di Troppo forte, decide con coraggio e determinazione di imprimere una svolta nel suo percorso artistico. Nel rievocare uno dei suoi film più personali e dolorosi il regista romano lascia trapelare l’urgenza di marcare una rottura con un passato di successo magnanimo e rassicurante, ma stancamente ancorato alle pareti di un grembo materno, incapace di valorizzare le spiccate potenzialità di un attore/regista considerato fino a quel momento degno erede di Alberto Sordi. Lo stesso Verdone in quegli anni è chiamato a crescere in fretta: il 23 giugno 1984, dopo una lunga e logorante malattia, l’amatissima madre Rossana Schiavina muore prematuramente. Un scomparsa che segnerà in modo indelebile la sua promettente carriera artistica acutizzando quel lato malinconico percepibile fin dagli inizi. Rossana Schiavina forse ancor di più del padre Mario è una figura fondamentale nella vita di Carlo, è colei che trasforma il salotto di casa in un’agorà della cultura nel quale i suoi tre figli Carlo, Luca e Silvia possono interagire con musicisti, registi e critici cinematografici. Ma è soprattutto colei che spinge quel ragazzotto taciturno e un po’ impacciato a tentare la via dello spettacolo spronandolo con amorevoli improperi a partecipare ai provini. Non sorprende quindi che Io e mia sorella sia un film ispirato e dedicato, come mostra la didascalia iniziale, alla memoria di una donna amorevole, colta e raffinata capace di intuire e valorizzare con sagacia la sensibilità e il talento del suo primogenito.

Tuttavia per elaborare e convivere con un lutto insostenibile e lacerante, Verdone deve osare, deve spingersi oltre, deve scrollarsi di dosso tutte le certezze acquisite fino a quel momento. Un primo “azzardo” lo opera nei confronti di Roma tagliando il cordone ombelicale che lo lega a quella seconda madre sorniona e ridanciana, che gioca sovente a fare la stupida con i tic e le manie delle sue iconiche creazioni. La svolta parte proprio da questa “emancipazione” geografica che lo porta ad ambientare la storia nella maestosa Spoleto per poi oltrepassare la cortina di ferro in Ungheria fino ad arrivare nella ridente Brighton, dove può rendere un doveroso omaggio alla sua passione anglofila (suggellata cinque anni dopo nella remota e suggestiva Cornovaglia di Maledetto il giorno che t’ho incontrato). Una formula “errante” ripetuta con successo e divenuta marchio di fabbrica nelle opere successive. Carlo Piergentili, musicista mite e riservato, conduce una tranquilla esistenza a Spoleto insieme all’irascibile e algida moglie Serena (Elena Sofia Ricci, David di Donatello come miglior attrice non protagonista), dotata violoncellista e collega di lavoro. In seguito alla morte della madre Carlo è costretto a richiamare sua sorella Silvia (Ornella Muti), un’imprevedibile e dissotterrata “mina vagante” di cui si sono perse le tracce. Il suo ritorno sconvolgerà senza troppi preamboli la vita del maldestro fratello, portandolo a compiere azioni impensabili. Lo tzunami Silvia non risparmierà niente e nessuno, complice un amore fraterno incapace di opporre la minima resistenza. Carlo subirà di tutto, acconsentirà a qualsiasi capriccio di quella ragazza, costantemente in balia degli eventi, disinteressata a trovare un posto nel mondo. La sua folgorante bellezza procede di pari passo con la misteriosa irrequietezza che fa di lei la capostipite verdoniana di tutte le “svitate” successive.

Per la prima volta Verdone rinuncia al classico innamoramento per concentrasi sulla famiglia, sulle ataviche contraddizioni di un legame molto più complesso e sfuggente di un rapporto amoroso. La scintilla scaturisce dalla volontà di lavorare con la Muti, un’attrice fino a quel momento relegata per lo più a ruoli da femme fatale. Dopo l’accoppiata vincente con Francesco Nuti l’anno prima in Stregati, l’idea di cimentarsi in una storia d’amore con l’ammaliante Francesca Romana Rivelli appare poco credibile. I fatti gli danno ragione: la Muti nel ruolo di Silvia offre una delle più convincenti interpretazioni della sua carriera, ma anche una delle più “rischiose”. L’attrice girerà il film al sesto mese di gravidanza, confessando il suo stato a contratto firmato. Una notizia che desterà qualche perplessità all’interno della troupe, ma sarà anche motivo di sorprendenti (la rivelazione della seconda gravidanza a cavallo delle “Seven Sister”) ed efficaci escamotage narrativi. Il film rappresenta per Verdone un primo viaggio nella memoria (il secondo sarà con Al lupo, al lupo) all’interno di una storia vissuta in prima persona. Per questo, prendere le distanze da quella grande e solenne casa intrisa di cultura, da quella madre che in punto di morte si preoccupa ancora per quella sorella “sgangherata”, risulta un vero tour de force emotivo. Nonostante alcune irresistibili gag (tra le più ricordate il rapimento del piccolo Zoltan all’interno dell’orfanotrofio) necessarie a stemperare e colmare il devastante senso di vuoto che attanaglia lo spaesato protagonista, Io e mia sorella rientra un po’ forzatamente nel campo della commedia. La storia, pervasa da un sottile e dolorosissimo senso di smarrimento, si riflette non soltanto nella vita sregolata di Silvia, ma abbraccia l’intera esistenza del suo autore.

Verdone si mette totalmente a nudo, mantiene i nomi di battesimo, non necessita di personaggi o caratterizzazioni, ma solo di quella amata/odiata sorella con la quale condividere uno dei momenti più critici della sua vita. Ma troppo coinvolgimento può risultare dannoso, può offuscare la mente, far perdere lucidità, ecco perché la Silvia tratteggiata nel film, non ha nulla a che vedere con la Silvia reale. Un distanziamento necessario a calibrare un indomabile mix di emozioni. Io e mia sorella insieme a Compagni di scuola è una delle opere meno citate e meno trasmesse dalle tv. Il motivo è facilmente rintracciabile, in quel politicamente scorretto che Verdone a differenza di altri non ha paura di maneggiare e ancor di più rivendicare, come mostra la recente accusa a un cinema ormai assuefatto al deleterio morbo del politicamente corretto. La morte, la famiglia disgregata, un sorella bigama e moralmente discutibile, un’ infermiera rumena focosa e disinibita, il finto rapimento di un figlioletto trattato come pacco postale. Nella società delle apparenze, Verdone squarcia il muro dell’ipocrisia e del finto perbenismo consegnandoci un quadretto famigliare impopolare e poco rassicurante. Nonostante ciò il film resta in tutto e per tutto il film di Rossana, magnifica presenza che torna protagonista nel finale, nella luce crepuscolare di quella grande casa vuota che vede i due fratelli trovarsi insieme per l’ennesima volta. In quel “Se n’è andata“, frase pronunciata da Carlo in riferimento all’inaspettato abbandono di Serena, è racchiuso il cuore del film, ma sopratutto l’ultimo struggente saluto verso l’amata genitrice. Carlo, come sottolinea la splendida Loving you again di Chris Rea, continuerà ad amarla per sempre, ma ormai è diventato grande, può finalmente iniziare una nuova fase della vita, abbandonare il ruolo di figlio per assumere quello di padre.

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