di Bruno Ciccaglione

Nato come un documentario musicale sui concerti che si svolsero a Kinshasa (Zaire) attorno all’incontro per il titolo dei pesi massimi tra Alì e Foreman nel 1974, When we were kings di Leon Gast si trasforma, nell’arco dei ventidue anni che occorreranno a completarne la realizzazione, nel racconto avvincente della figura di Mohamed Alì e di quello storico incontro di boxe, che andava ben oltre lo sport e che segnava per gli afroamericani una tappa significativa dentro un processo di emancipazione allora ancora tutto da realizzare (e purtroppo di certo non ancora pienamente compiuto). Uscito nel 1996 nei cinema di tutto il mondo, il film vincerà meritatamente l’Oscar come miglior documentario, ma forse Mohamed Alì – ci si conceda questa boutade – avrebbe meritato anche quello come miglior attore protagonista…

La vita di Mohamed Alì, tra sport e impegno civile, è quella di un dominatore della scena che ha concorso a cambiare la società americana, rappresentando un modello per milioni di giovani afroamericani (e non solo). Che gli afroamericani ed i neri dominassero la scena sportiva non era una novità, negli USA degli anni 60 che il giovane Cassius Clay (il nome “da schiavo” da cui si libererà con la conversione all’Islam) aveva cominciato con la vittoria dell’oro alle Olimpiadi di Roma. Che le loro performance sportive avessero anche una rilevanza politica enorme divenne già chiaro con le Olimpiadi di Berlino del 1936, in cui l’intento propagandistico del regime nazista si scontrò con esiti sportivi difficilmente utilizzabili, il più famoso dei quali fu il trionfo di Jessie Owens (4 medaglie d’oro, di cui 3 con record del mondo, nei 100 e nei 200 metri, come nella staffetta e nel salto in lungo), che mal si sposava con le teorie sulla superiorità della razza ariana di Hitler (il dittatore, furioso, rifiutò di stringere la mano all’atleta afroamericano durante la premiazione). Che invece i due momenti, quello del successo sportivo e quello della battaglia politica per i diritti civili, trovassero espressione in una stessa persona, fu una novità assoluta. Non solo non si era mai visto un atleta che parlava con la stessa velocità (e proprietà di linguaggio, ironia, spavalderia…) con cui si muoveva sul ring (“Volo come una farfalla, pungo come un ape!”), ma la cosa più stupefacente fu che a farlo fosse un nero. L’impatto di Cassius Clay/Mohamed Alì sulla società americana fu fulmineo, scioccante ed esaltante: non stupisce affatto che il cinema abbia più volte raccontato, non sempre con risultati entusiasmanti, alcuni momenti della sua vicenda umana e politica, visto che Alì è diventato un mito per intere generazioni di (afro)americani. La forza di When we were kings, però, è che qui a parlare – assieme a numerosi testimoni e osservatori intervistati nel corso di molti anni – non sia un attore che interpreta il ruolo del campione, ma sia soprattutto, con la sua proverbiale irruenza, Mohamed Alí stesso, seguito quotidianamente dalla cinepresa durante le settimane di permanenza in Africa, che precedettero lo storico incontro del 1974.

Qual è la magia speciale di questo film? È la magia di una scoperta: la riscoperta ed il ritorno alle origini da parte dei neri d’America, la scoperta dell’Africa da parte di Alì. Non è casuale che la prima immagine del film non sia quella di Alì, ma quella di Miriam Makeba, la cui travolgente performance di “Amampondo” diventa un filo rosso che lega tutto lo sviluppo del film.

Nella prima parte del film osserviamo la costruzione della campagna di marketing che porta all’incontro in Zaire, capace di cavalcare con intelligenza e senso degli affari la nuova retorica dei movimenti degli afroamericani (il ritorno alle origini africane, l’orgoglio nero, la lotta politica per i propri diritti), combinata con la necessaria mancanza di scrupoli (l’ambiguità del rapporto col feroce regime di Mobutu); non a caso si dice esplicitamente che il vero motivo per cui l’incontro per il titolo dei pesi massimi si svolgeva in Africa erano i soldi. Ma quella retorica e quella propaganda avevano una forza reale nelle società dell’epoca e Alì ne era sinceramente convinto. Soprattutto, a dare una svolta alla vicenda ed a trasformare il film arriva un imprevisto: l’infortunio in allenamento del campione del mondo Foreman, che costringe al rinvio di cinque settimane dell’incontro e che imporrà ad Alì una lunga pausa di riflessione. Mentre il suo avversario e tutto il circo mediatico che attorno al match era stato costruito lascia la città ed il continente Africano, per tornarvi solo per l’incontro, Alì dopo un momento di smarrimento prende una decisione che risulterà importantissima sotto molti profili: quella di restare in Africa e continuare lì la sua preparazione, sia fisica che mentale. È questa la parte più bella del film. Se la popolarità di Alì era già grandissima tra la popolazione africana (il rifiuto di andare a combattere in Vietnam, che gli era costato una condanna e la perdita del titolo mondiale, ne aveva fatto un eroe in tutto il Terzo Mondo), il suo legame con l’Africa e con la sua popolazione si rafforza e si approfondisce proprio in queste settimane. Leon Gast ha raccontato che in questa fase, lontano dai riflettori, la disponibilità di Alì ad offrire anche il lato più intimo di se stesso fu sempre maggiore, come se i suoi dubbi, le sue paure di fronte a una sfida che molti ritenevano impossibile, grazie al rapporto sempre più intimo con i luoghi e le persone che lo circondavano, potessero diventare una risorsa per affrontare la sfida sportiva, invece che un limite. In qualche modo, suggerisce il film, queste impreviste settimane in Africa determineranno anche il cambio di strategia sportiva che Alì realizzerà durante il match: arrivato a Kinshasa spavaldo e pronto a puntare sulle sue risorse più note – la incredibile velocità, inusuale per un peso massimo, la tecnica dei movimenti delle gambe che lo vedeva “danzare” intorno ai suoi avversari, alla fine vincerà con una strategia attendista che nessuno avrebbe mai consigliato: farsi colpire in modo forsennato, fino a che il suo avversario non fosse stato esausto e al momento opportuno colpire. Uno sceneggiatore non avrebbe potuto scrivere una storia più affascinante.
