di Simone Lorenzati

Tratto dall’omonimo romanzo di Davide Longo, Il Mangiatore di pietre (2019) è il primo film del regista Nicola Bellucci, finora attivo con una serie di documentari. La storia è quella di Cesare (Luigi Lo Cascio), detto “Il francese”, un ex passeur che, scontata la permanenza in carcere per un vecchio affare, torna tra le valli piemontesi ai confini con la Francia. Vedovo e solitario, Cesare si districa tra lavori artigianali e la compagnia della sua lupa Micol, finché la sua esistenza non verrà nuovamente sconvolta dal ritrovamento del cadavere del “figlioccio” – nonché discepolo – Fausto, e dall’incontro con il giovane Sergio (Vincenzo Crea), anch’egli con una vita problematica ed estremamente complicata da dominare.

È un contesto freddo, cupo, nebbioso quello de Il Mangiatore di pietre, un contesto ed un ambiente dei paesaggi innevati piemontesi delle Valli Varaita e Bavona, che ben rappresentano la durezza della vita e della interiorità di Cesare, uomo in apparenza distaccato ed arido, e la tumultuosa, quanto silenziosa, irrequietezza di Sergio. Un’eccellente fotografia riesce a mettere in risalto la bellezza di un luogo quasi tenebroso e lugubre, eppure decisamente affascinante. Al solito grandiosa l’interpretazione di Luigi Lo Cascio (si esprime pure parecchie volte in un discreto piemontese), che incarna perfettamente un personaggio aspro e spigoloso, un uomo segnato da profonde sfumature grigie, come quelle del cielo plumbeo sotto cui vive. A ben guardare sono proprio la sofferenza e la perdita a portare Cesare verso un processo di espiazione prima e di redenzione poi.

Buona anche l’interpretazione del giovane Vincenzo Crea, soprattutto grazie a sguardi vividi e carichi di domande, interrogativi, però purtroppo spesso senza risposta.
Insomma nella storia del “mangiatore” si rivelano i lati opachi delle cose, la duplicità dell’agire umano che affascina ed insieme spaventa. Il confine, territorio di mezzo, indeterminato e ambiguo: linea reale, convenzionale o culturale, che separa sempre ciò che è altro da sé, diventa il luogo simbolico per eccellenza di questo film. Il confine da proteggere e da oltrepassare, diviene così la linea di demarcazione delle scelte morali, dei rapporti interpersonali e del destino dei suoi protagonisti, moltiplicando gli interrogativi di partenza fino all’infinito.
Si scorge la desolazione di un mondo alpino ormai in abbandono, con i suoi abitanti e con il loro modo di vivere sobrio e solitario all’interno di una comunità disgregata dalla modernità. E come dimenticare, poi, il gruppo di clandestini in attesa di conoscere la propria sorte, in mezzo ad un mondo distante chilometri, reali e metaforici, dalle loro radici? Al di là dei confini labili tra giusto l’ingiusto, tra il legale e l’illegale, a prevalere, in fondo, è davvero l’umanità, sia in Cesare sia in Sergio. In un presente distaccato e, questo sì, spesso arido, vedere Cesare, in mezzo alla neve montana, prendere sulle proprie spalle l’anziano di colore che non riesce più a camminare, o Sergio tenere stretto in braccio il bimbo di un anno, riconcilia con un concetto che va sempre più spesso affievolendosi. Quello, per l’appunto di umanità.

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