di Marco Grosso

Regista singolarissimo e controverso, stra-vagante nel senso etimologico del “vagare al di fuori” di ogni tracciato segnato dalla tradizione cinematografica o dalle cosiddette scuole di cinema, Roy Andersson può apparire al primo impatto registicamente “folle” e i suoi film possono risultare minimalisti e disarticolati fino al nonsense. Sarebbe forse anche da discutere se le sue opere abbiano a che fare più con alcune tendenze della video-arte digitale contemporanea che col cinema “in senso stretto” (ammesso che questa espressione abbia un senso), ma una cosa è certa: Roy Andersson non somiglia a nessun altro regista (al limite qualcuno prova a somigliargli). Probabilmente il suo cinema non è altro che un personalissimo modo di inanellare una serie di “tableaux vivants” e di “haiku visivi” intorno a un filo invisibile che lo spettatore può solo sospettare, intuire, intrecciare ai propri fili di dentro senza mai poterlo fissare o prendere da un capo all’altro.

A ben vedere (perché di esperienza squisitamente visiva si tratta) anche quest’ultima opera del regista svedese dal titolo apparentemente pretenzioso (Om det oändliga, tradotto Sulla infinitezza) non fa che riporre sotto traccia al suo spettatore la medesima domanda posta in ogni suo film: “cos’è il cinema? Sei sicuro di saperlo?”. In effetti, se ci si addentra nella sua folgorata e folgorante logica visivo-compositiva, non si può non riconsiderare quella semplice e profonda verità per cui il cinema rimane, in ultima istanza, un “mistero” inesauribile (come ripeteva l’immenso Andrej Tarkovskj). Ebbene Roy Andersson questo mistero lo spiega senza mai s-piegarlo, messa in scena per messa in scena, senza mai consegnare le chiavi per decifrarlo. È semmai nelle pieghe, ben esposte dal regista, della più banale e insignificante ordinarietà della vita umana che per lui si celano e si consumano le rotture, i paradossi, le eccezioni, le assurdità più spaesanti. Sull’infinitezza ci parla di questo, del gioco di specchi tra ordinarietà e stra-ordinarietà, banalità e splendore, bellezza e crudezza, solitudine imprigionante e scomposta invocazione dell’altro, disperata speranza nella vita e irrimediabile fragilità dell’umano; ci parla dell’ambiguo intersecarsi di questi opposti fino al loro coincidere con le due facce dello stesso mistero dell’esistenza, della sua stessa finita infinitezza.

Il regista conduce lo spettatore in un sogno lucido dalle tinte algide e desaturate, con tonalità pastose e atmosfere pittoriche sospese tra il tocco di Bruegel e quello di Hopper, lasciando che a guidarlo sia la suadente voce femminile fuori campo di una Sherazade (delle Mille e una notte) che si limita a introdurre ogni nuova scena con un “ho visto…” (resta questo il solo filo di collegamento tra i vari “quadri”). Si tratta di personaggi visti nell’atto di compiere gesti (agenti, reagenti, patenti) che vanno dalla più interrogativa e rituale insignificanza alla più dirompente ed inesplicata drammaticità.
In questo modo momenti irrilevanti della quotidianità più intima e privata assurgono alla medesima valenza di eventi storici dell’umanità (che pure vengono richiamati come la sequenza di Hitler nel bunker o dell’esercito che ripiega verso la Siberia).
Tutto viene visto come dall’alto, da un volo a planare sui resti della storia umana: una coppia di amanti volanti e anemici, teneramente abbracciati come in un dipinto di Chagall, sorvola una città bombardata (Colonia) fluttuando molto lentamente dalla linea dell’orizzonte al piano ravvicinato. È una città devastata dalla guerra ma ancora evocatrice di struggente bellezza nei resti architettonici di cui è disseminata. È la metafora dell’arte – e dunque anche del cinema – come un volo stupefatto e melancolico sulle rovine del tempo. È la sequenza più iconica del film.

Ogni scena di Sull’infinitezza è quasi un microfilm a sé stante, ad eccezione di alcune figure e mini-vicende che si ripropongono e accennano uno sviluppo. Ma è evidente, in questo film come e forse più che nei precedenti, che non si dà – né potrebbe darsi – alcuna “trama”, alcun disegno narrativo, perché il continuum rimane esclusivamente stilistico, poetico, atmosferico, in certa misura tematico ma mai narrativo o logico-consequenziale. Rispetto ai film precedenti notiamo inoltre una piega tonale più luminosa e più lirica, meno claustrofobica e disperata ma anche meno incline al suo inconfondibile e geniale “umorismo nero”. Si vede allora un padre che mentre accompagna la figlia a una festa di compleanno si ferma per allacciarle le scarpe sotto una pioggia battente; si vede un battaglione sconfitto che marcia sotto la tormenta di neve verso la Siberia; un prete cattolico che ha perso la fede e arriva disperato nello studio di uno psichiatra preoccupato solo di perdere il suo autobus; una donna che scende da un treno in una stazione deserta talmente convinta che nessuno l’aspetti che non si accorge dell’uomo giunto a prenderla; un uomo in automobile lungo una stradina di campagna che sembra snodarsi all’infinito costretto a fermarsi e a scendere per un guasto. Si vede altro ancora e tanto altro resta in-visibile dentro il visibile stesso.

Ecco allora il senso più comprensivo di Om det oändliga: insieme lode e lamento, meraviglia e mal d’essere, anti-narrazione virtualmente infinita su tutto ciò tutto ciò che è eternamente umano e sulla sua commovente vulnerabilità.
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