di Bruno Ciccaglione

È appena uscito e già infiamma il dibattito, il documentario in 5 puntate “Sanpa“, dedicato alla storia della comunità di recupero per tossicodipendenti di Vincenzo Muccioli. E non potrebbe essere diversamente: per la prima volta si esce dalla propaganda che massicciamente aveva sponsorizzato Muccioli, lasciandogli addirittura definire la politica delle droghe in Italia dagli anni 80 in avanti (dai Moratti a Red Ronnie, da Maurizio Costanzo a Craxi, da Paolo Villaggio a Enrico Maria Salerno), per lasciar emergere almeno in parte anche i molti lati oscuri di quella storia. In altre epoche sarebbe stato il cinema a raccontare una vicenda fatta di luci ed ombre, che è anche un intreccio da thriller politico e giudiziario. Oggi a farlo è una “docuserie”, che ha alcuni pregi, ma anche difetti piuttosto evidenti, inevitabilmente determinati dalla forma scelta per il racconto.

Anche per lo spettatore più avvertito – o che per età ricorda le vicende della comunità di San Patrignano e la figura pubblica di Muccioli – la serie prodotta da Netflix risulta ricca e interessante per le numerose testimonianze inedite e la raccolta di materiali d’archivio a volte di una eloquenza assoluta. Per la prima volta si è dato voce anche a chi non l’aveva mai avuta e almeno ai “familiari delle vittime”, sempre ostracizzati dai media all’epoca dei fatti. Se infatti i responsabili attuali della comunità di San Patrignano hanno preso male una serie che dà fin troppo spazio alle voci dei fan adoranti ed alla loro stessa rilettura ex post di questa storia, la vera novità è che per la prima volta si ascoltano voci e si mostrano immagini inedite che raccontano con dettaglio delle sevizie, delle torture, dei suicidi sospetti, fino al culmine dell’omicidio (e forse di altri omicidi pianificati e per fortuna non realizzati). La cosa più sorprendente semmai, nel seguire la storia di questa specie di guaritore/santone/imprenditore di se stesso, come Muccioli stesso si definisce, che programmaticamente usa e promuove la violenza come “terapia” (esattamente come i manicomi di una volta), la cosa sorprendente appunto è scoprire che la comunità di San Patrignano esista ancora.

L’elemento più forte del racconto, la ragione del suo probabile successo e anche delle polemiche che inevitabilmente scatenerà, però, è più sottile della vicenda a tinte fosche che racconta. A stupire infatti sono le analogie che intravediamo, tra il tipo di cultura e di dibattito che vediamo emergere negli anni 80 e che caratterizzeranno poi il dibattito pubblico fino ad oggi. Alcuni dei tratti che ci paiono tipici dell’oggi, infatti, emergono in quel periodo e sono emblematicamente visibili in questa vicenda (come in altre simili e successive, si pensi ai casi Di Bella e poi Stamina). Nel vuoto lasciato progressivamente dai partiti di massa (che poi culminerà con Tangentopoli nel ’92) e nella progressiva scomparsa di soggetti collettivi che mediano e canalizzano le dinamiche sociali, emergeranno sempre di più ed in forme nuove le scorciatoie populiste, basate su figure carismatiche cui affidarsi ciecamente, un malinteso antiautoritarismo e antistatalismo (che servirà a privatizzare la sanità pubblica), il complottismo (non sorprende che il No-Vax Red Ronnie sia ancora un fan delle “maniere forti” di Muccioli, ma di fronte ai vaccini oggi invochi la libertà di scelta delle terapie prescritta dalla Costituzione): in altri termini, la fuga dal reale per masse crescenti di popolazione abbandonate in balia dei mercanti di ogni sorta di stupefacenti (reali e non solo).

In altre epoche ci saremmo attesi un Francesco Rosi a raccontare una vicenda così ricca di spunti di riflessione sulle trasformazioni della società italiana. Ma anche i più irriducibili cinefili devono prendere atto che il cinema non occupa più il centro del dibattito pubblico come 50 anni fa e questo rende un certo tipo di film ormai difficilmente proponibili oggi, soprattutto se vogliono fare in qualche modo “controinformazione”. In un certo senso il successo di massa del cinema mainstream rendeva possibile la realizzazione di una serie di film di nicchia che andavano a occupare anche spazi di libertà lasciati vuoti dalla televisione (prima ingessata dal controllo politico sulla Rai e poi spartita con Mediaset), poi in parte occupati dalla Pay Tv e ormai incorporati nelle piattaforme. Che funzionano esattamente allo stesso modo, verrebbe da dire: senza Bridgeton probabilmente non ci sarebbe When they see us, senza La regina degli scacchi non ci sarebbe Sanpa.

La forma del documentario in serie, d’altra parte, è andata assumendo caratteristiche mutuate dal documentario, dal reportage giornalistico, ma anche dal programma televisivo e naturalmente dal cinema. Cosima Spender realizza un prodotto che, si può dirlo senza tema di smentita, è ben superiore alla media dei prodotti analoghi di altri paesi sulla stessa piattaforma Netflix e di questo le va dato atto, prima di tutto nella scelta di evitare la forma della docu-fiction. L’introduzione di ricostruzioni di fiction addirittura in programmi di informazione o di ricostruzione storica – che in Italia si deve non a Mediaset, ma a Telefono Giallo di Augias e poi a Blu Notte di Lucarelli – oggi è appunto degenerato nelle docu-fiction, in cui il proposito di spettacolarizzare e intrattenere è assolutamente dominante rispetto a quello di documentare e raccontare. Tuttavia alcune scelte, molto tipiche del tipo di linguaggio che si utilizza nelle “docuserie”, ne determinano alcuni limiti. Ad esempio non assistiamo mai alle domande che via via sono state poste ai numerosi testimoni. Questo elemento apparentemente legato a esigenze di agilità narrativa, in realtà è forma e sostanza insieme: se pensiamo ai documentari di Herzog o più recentemente a quelli di Kusturica, l’autore è presente, le sue domande sono il filo che lega la riflessione che l’autore fa mentre racconta una vicenda, anche senza fiction è cinema nel senso più alto, c’è un autore che racconta, anche se dà la parola a voci altrui, a storie altrui.

Nelle “docuserie” invece, e questa è anche la scelta degli autori di Sanpa, ciascuno dei testimoni racconta la sua storia – questa la illusione – dal suo punto di vista e gli autori fanno un passo indietro. In nome della imparzialità, di fronte a una vicenda controversa, si dirà. O di una maggiore commerciabilità del prodotto, si potrebbe invece sostenere. Si lascia allo spettatore il compito di dare maggiore enfasi a una o all’altra delle voci, di schierarsi e prendere liberamente posizione o, ancora meglio, di non prenderne alcuna, dopo aver assistito a 5 puntate di intrattenimento molto efficace, dove ognuno può trovare quello che vuole, come al supermercato. In questo senso la forma in sé è molto furba. Ad esempio, la scritta che compare all’inizio della serie, sulla strategia della mafia che tra gli anni settanta e ottanta invade i mercati imponendo il consumo di massa dell’eroina, creava l’aspettativa di una riflessione più ampia sulla politica sulle droghe in Italia, tanto più che Muccioli è stato uno dei perni delle scelte proibizioniste e repressive del consumo che hanno prevalso (la famosa “guerra alla droga” di Reagan). È ricordata sì la legge Jervolino-Vassalli, che fu fatta a immagine e somiglianza di Muccioli e che garantiva un flusso di fondi pubblichi alle comunità proprio mentre si aumentavano le pene per il consumi (che queste posizioni reaganiane siano state in Italia il cavallo di battaglia di Craxi e del Psi, a onta della tradizione libertaria di quel partito, molto rivelava dello spostamento a destra della società italiana di cui la vicenda di Muccioli ci diceva). Ma una posizione equidistante appare francamente deludente.

La buona fattura del prodotto e l’accuratezza della ricerca effettuata, crediamo garantiranno successo a questa serie. Ma se Cosima Spender si illudeva con questa scelta “a-autoriale” e commerciale di non scatenare un putiferio, pensiamo si sbagliasse di grosso. E allora tanto sarebbe valso aver preso posizione in modo più chiaro.
Ottima analisi e riflessione. Anche per me e’ più’ una serie sugli anni 80 che su San Patrignano. Comunque il mito dell’uomo forte che semplifica tutto, riparti in Italia negli anni 80. Concordo!
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Sto finendo di vederla, fatta davvero bene!! Devo terminarla per farmi un idea definitiva di tutta questa storia
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