di Simone Lorenzati –
Io, Daniel Blake è un film di Ken Loach del 2016. La pandemia era ancora di là da venire, eppure la precarizzazione, lo smantellamento del lavoro erano già ben presenti, specie sulla pelle di chi li stava subendo. Quella sensazione di sentirsi un numero, quell’attimo in cui si passa da spettatore di telegiornale a protagonista di quei servizi in cui si racconta la fine di quella o di quell’altra ditta.

Il film è stato trasmesso ancora recentemente in televisione. Eppure. Eppure al cinema colpisce davvero come un schiaffo in pieno volto. Tanto che, dopo l’ultima scena del film, in un sabato sera di un cinema centrale di Torino, non esattamente vuoto, si presenta questa scena. Partono i titoli di coda, si riaccendono le luci. Silenzio. Nessuno che commenti col proprio vicino, nessuno che parli, nessuno che prenda immediatamente lo smartphone incredibilmente abbandonato per quasi due ore. Per diversi, lunghi quanto intensi secondi si rimane lì, immobili. Incapaci di rimettersi in piedi pronti per la quotidianità, colpiti e toccati dalla profondità di questo film. E si riflette in silenzio, probabilmente con gli occhi lucidi. È esattamente questa la potenza della penultima fatica del regista inglese Ken Loach, classe 1936, una storia di fantasia, eppure assolutamente comune.
Daniel Blake – interpretato da uno straordinario Dave Johns – è un cinquantanovenne di Newcastle. Vedovo, fa il falegname da sempre, insieme a una miriade di altri lavori manuali. Tuttavia, in seguito ad alcuni problemi cardiaci, per qualche tempo non è più in grado di lavorare e, per la prima volta nella sua vita, ha bisogno dell’aiuto dello Stato (siano questi sussidi, disoccupazione oppure una semplice indennità). La sua è una vicenda drammaticamente paradossale, che si incrocia con quella di Katie – l’altrettanto ottima Hayley Squires – ragazza madre da poco trasferitasi in città da Londra con i suoi due bimbi piccoli.
Loach ci mostra, insieme, i limiti di una burocrazia che pare costruita appositamente per far desistere l’accesso a diritti dovuti, unitamente al lento precipitare dei protagonisti verso l’indigenza. Eppure l’opera mostra un tesoro inestimabile, e di cui spesso ciascuno di noi dubita: la forza straordinaria delle relazioni umane, dell’empatia e della solidarietà. C’è, innanzitutto, il rapporto di profonda amicizia tra i due protagonisti della pellicola (prima lui aiuta lei mentre, in seguito, avverrà il contrario). C’è poi la complicità di Daniel con il giovane vicino di origine africana, così come vi sono molti gesti di generosità inaspettati: il direttore del supermercato che grazia Katie costretta – per fame – a rubare tra gli scaffali, le donne del banco alimentare che mostrano una profondissima umanità, l’ex collega che passa a Daniel un legno da lavorare, la funzionaria dell’ufficio disoccupazione che lo aiuta di nascosto. E – soprattutto – ci sono gli applausi dei passanti quando Blake inscena la sua protesta davanti all’ufficio che gli nega l’assegno a cui ha diritto.

C’è insomma, pur se in una vicenda drammatica, trattata con piglio diretto senza, tuttavia, rinunciare all’ironia, una speranza cui aggrapparsi. L’ultima barriera di civiltà e di futuro quando è già finito tutto il resto: il lavoro, il welfare, il partito, il sindacato, la sinistra, la lotta. Mentre si disgregano i tradizionali circuiti associativi solidaristici, ed emergono gli odiatori di ogni categoria diversa dalla propria, giovani contro vecchi, partite IVA contro operai, indigeni contro immigrati, precari contro stabili, Loach lancia un (timido) messaggio di speranza, quella che invece manca nel suo successivo Sorry, we missed you. Insieme, insomma, un pugno e una carezza.