Policeman, di Sergio Rossi (1969)

di Greta Boschetto

Questa rarissima pellicola ostacolata per anni dalla censura italiana e già in quel periodo distribuita con due anni di ritardo, figlia del suo tempo e da inserire nel filone contestatario che animò gli schermi italiani di quel periodo (ma non per questo meno attuale), è quasi da considerarsi un film fantapolitico, su un’Italia che non viene mai apertamente citata, una vicenda che prende spunto dalle lotte quotidiane di quel periodo caldo per descrivere probabilmente anche un possibile futuro distopico, e che invece oggi ci mostra il passato parlandoci purtroppo anche del presente.

Il film è pieno di particolari che ci descrivono bene quel finire degli anni ’60: un sud depresso, alla fame, disperato, il paese triste e povero dei genitori del protagonista, il suo viaggio in treno verso la capitale dove l’attenzione dei suoi compagni di viaggio è totalmente attirata dalle minigonne e dalle gambe nude delle ragazze della grande città, i filmati di reali scontri in piazza montati insieme quasi come un’opera di video arte.

Gli spunti della riflessione del regista sembrano prendere vita direttamente dalla poesia di Pasolini sui fatti avvenuti nel ’68 a Roma, “la battaglia di Valle Giulia”, un’opera manipolata da sempre come se Pasolini si fosse schierato a favore “delle guardie”, quando semplicemente si voleva mostrare solidale con gli operai, con le masse, ma non con i borghesi giudicanti a prescindere.

Sergio Rossi però ci parla soprattutto, in modo crudo e tagliente, dei poliziotti-burattini, ci mostra il loro addestramento fisico ma soprattutto mentale, istruiti dai loro responsabili di caserma all’uso della violenza indistintamente e sistematicamente, verso chiunque ma soprattutto verso gli scioperanti, un’educazione autoritaria e repressiva delle loro menti che li porterà addirittura a impazzire quando capiranno il grande inganno che c’è dietro le belle parole sventolate dai superiori, dogmi che cercano solo di renderli decerebrati e quindi più plasmabili, mansueti, obbligati a seguire regole assurde per allontanarli dalla realtà.

Il protagonista si ritrova a partire da un piccolo paese del Sud Italia, figlio di poveri braccianti, per arruolarsi nelle forze dell’ordine, non tanto perché credente del binomio autorità e forza, ma per avere uno stipendio fisso al mese. Arrivato in caserma, fa amicizia con Lou Castel (immancabile praticamente in ogni film contestatario e politico di quell’epoca) e si ritrova a gestire una situazione di violenza psicologica e fisica che non avrebbe mai potuto immaginare, lasciato anche dalla ragazza appena scopre che di professione fa il poliziotto.

Non può esserci un bel finale per chi non capisce più la sua identità: figlio del popolo, forse a volte più dei manifestanti stessi, ma di professione servo della classe ricca, dei padroni, per quei due soldi al mese che ti permettono di sopravvivere e tornare al paese e sentirti finalmente “la casa più bella nel quartiere più povero”: l’illusione di stare meglio rispetto alla povertà rurale e arretrata da cui arriva dura poco, come diranno anche i manifesti attaccati in giro per la città dagli studenti nella scena finale, accompagnati dalle note impetuose di “Combat” di Tito Schipa Jr.

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