Un condannato a morte è fuggito, di Robert Bresson (1956)

di Girolamo Di Noto

Lione 1943, prigione di Montluc: il tenente Fontaine( Letterrier), uomo della Resistenza condannato a morte, prepara minuziosamente la fuga dal carcere nazista. Ispirato da un articolo autobiografico di André Devigny, Bresson riesce, con una sobrietà assoluta, a raccontare più che la storia di una fuga, la storia di una tensione assoluta verso la vita. Ogni gesto, ogni pensiero di Fontaine è mosso da un forte anelito verso la libertà, da una sfida verso se stesso, dalla ricerca ostinata di un pertugio che possa condurlo oltre, al di là del muro.

La cronaca minuziosa di questa evasione è descritta attraverso immagini essenziali, riducendo tutto quello che può apparire superfluo, concentrandosi sui primissimi piani dei volti dei protagonisti e su dettagli importanti, pregni di significato. La prima sequenza del film è alquanto significativa e mostra la tenace determinazione del condannato a fuggire dalla macchina che lo sta conducendo in carcere. Bresson, sin da subito, mostra grande amore per il dettaglio inquadrando il primo piano delle mani del prigioniero intente ad aprire la portiera dell’auto.

Il fallito tentativo di fuga si svolge fuoricampo mentre ad essere inquadrato, fisso, è lo spazio vuoto dove il condannato verrà ricondotto. Già da questa prima scena si evince il pensiero del regista che ha sempre mostrato nei suoi film gesti, non azioni mettendo in atto una poetica di sottrazione, del non mostrato. Il film si apre sulle mani che tentano di aprire una portiera, mostra le mani ammanettate, aggrappate alla finestra, che operano in vista della fuga, che sono elemento di comunicazione con gli altri.

Fallito il primo tentativo di fuga, Fontaine sa che per poter evadere deve poter contare sulla solidarietà umana. Nell’universo di Bresson non ci si salva da soli. Fontaine è abile in prigione nel riuscire a trasformare con l’instancabile lavorio delle mani quei pochi oggetti che ha a disposizione, ma non potrebbe mai farcela senza l’aiuto di altri detenuti. La fuga dal carcere sarà resa possibile dal fallimento di un altro tentativo e dall’aiuto di un compagno capitato per caso nella stessa cella.

Il caso, già, il caso. È l’altro grande protagonista del film, invisibile ma indispensabile per il raggiungimento della libertà. Il sottotitolo del film è Il vento soffia dove vuole e riprende la frase di Cristo a Nicodemo riportata nel Vangelo secondo Giovanni relativa alla non spiegabilità umana di un intervento superiore. Il fatto che il vento soffia dove vuole pone il problema del destino individuale. L’eroe di Bresson non è padrone assoluto del suo divenire. È niente senza Dio, ma non per questo è un semplice giocattolo nelle mani del suo creatore. La sua visione del mondo appare di ispirazione cristiana ma non è vissuta in modo passivo, bensì legata all’adagio “Aiutati che il ciel ti aiuta”.

Sulla prigione – sembra farci capire Bresson – una mano invisibile dirige gli avvenimenti, fa sì che una cosa riesca per qualcuno e non per un altro, ma l’uomo non può sperare di uscire restando fermo a pregare ma utilizzando l’ingegno e contando sull’aiuto degli altri perché, come dice Fontaine, “sarebbe troppo comodo se Dio si occupasse di tutto”. Nessuno si salva da solo. La solidarietà è reciproca: Fontaine riceve aiuto materiale dagli altri detenuti e infonde loro speranza, gli arriva dal reparto donne un involto con zolle di zucchero, una spilla e un messaggio scritto: “Coraggio”, ma sa anche comunicare con il suo vicino di cella picchiando sul muro per impedirgli di tentare di nuovo il suicidio. Quando si troverà ai piedi di un muro particolarmente alto, Fontaine può farcela solo grazie all’aiuto di Jost, il compagno di cella verso cui all’inizio prova diffidenza e timore. Ingegno, solidarietà, caso o grazia divina: questi sono gli ingredienti necessari per Fontaine per ottenere la libertà.

Lo spazio chiuso della prigione sembra sancire l’impossibilità di Fontaine di sottrarsi al proprio destino di condannato a morte. Fontaine ha un volto pensieroso e impassibile, non ha quella virilità d’azione che troveremo nei protagonisti dei successivi prison movie, eppure la sua caparbietà, la sua fede lo aiuteranno ad andare oltre. Bresson è straordinario nel marcare la separazione tra il protagonista e il mondo esterno attraverso la finestra della cella, unico contatto possibile con l’esterno. “L’immagine – diceva Barthes – è ciò da cui io sono escluso”. Fontaine davanti alla finestra si sente escluso dalla libertà, però al contrario degli altri personaggi del film che sembrano ormai già rassegnati a morire, lui non vive nell’attesa del compimento di uno scacco, di una perdita.

La finestra, al contrario, assurge sì a simbolo di libertà ma ha anche funzione di utilità, indispensabile per ricevere i primi aiuti, i primi oggetti per fuggire. Per evadere deve addomesticare oggetti di uso quotidiano per scopi più importanti. Gli oggetti per Bresson sono tanto importanti quanto gli uomini. “Desidererei realizzare nello stesso tempo un film di oggetti e un film sull’anima, cioè cogliere questa attraverso quelli”. Un piccolo cucchiaio, una spilla che gli consente di aprire le manette, la molla del letto, i ganci, le lenzuola diventeranno simboli indispensabili verso l’agognata libertà.

Bresson dà inoltre al suono un ruolo preponderante nel film. I suoni, i rumori inducono lo spettatore a immaginare, richiamano il non visibile. Tutto l’apparato oppressivo è più udito che visto: le facce di coloro che conducono gli interrogatori non sono mai mostrate, si sentono i passi stridenti degli stivali, le raffiche delle mitragliatrici che annunciano fucilazioni. I rumori acquisiscono una potenza allucinante quando i mazzi di chiave urtano le sbarre ma possono anche dar vita ad un paesaggio di libertà come il fischio di un treno in lontananza o i rumori del tram della città vicina. Sono indispensabili per evadere nella scena finale quando il rumore del treno attutisce quello procurato dalla ghiaia schiacciata dai piedi di chi fugge. La messa in do minore di Mozart, infine, è utilizzata in maniera sommessa sia come sottofondo nella scena in cui tutti i prigionieri camminano in fila verso il cortile della prigione per vuotare i loro buglioli, sia per scandire la conquista della libertà ritrovata ” grazie alla fraternità degli uomini e alla comunione dei santi”. Un film di straordinaria bellezza, interpretato da attori non professionisti, realizzato da un maestro del cinema capace di essere stato semplice e profondo nello stesso tempo, abile nell’essere riuscito a mostrare l’espressione più nobile dei sentimenti e il valore poetico della vita.

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