Café Society, di Woody Allen (2016)

di Simone Lorenzati

Era un ritorno negli Usa quello per Woody Allen. Dopo aver dipinto Parigi (Midnight in Paris) e Roma (To Rome with love), infatti, nel 2016, riecco Allen sul suolo di casa grazie a Café Society. Pungente e ironicamente brillante, la pellicola ci reimmerge nelle sofisticate atmosfere della vecchia Hollywood, nonché della mondanità newyorkese tipica di quell’epoca. Nel film le parole di Allen brillano in una sceneggiatura – scritta peraltro dallo stesso regista – fatta di momenti dai tempi comici notevoli, letti impeccabilmente da Jesse Eisenberg, sostanzialmente il perfetto alter-ego di un giovane Woody Allen, nelle vesti del protagonista Bobby Dorfman e della, di lui, ebraica famiglia.

Fanno da contorno alla storia la finezza del tocco tipica di Allen, la levigata perfezione degli ambienti fino all’impeccabile fotografia di un ipermanierista Vittorio Storaro.

L’ambientazione è quella degli anni Trenta, nella Los Angeles in cui l’industria dorata sta costruendo il proprio mito a un ritmo forsennato: sembra, infatti, che da quelle parti non si faccia altro che parlare di cinema, di film, di attori e così via. Tutti parlano di tutti, tutti sanno tutto, ed aleggia una frivolezza che stona con il periodo storico ma non importa, perché siamo pur sempre a Hollywood. E allora la California, con i suoi sogni in pellicola, è davvero un altro mondo.
Bobby Dorfman (un ottimo Jesse Eisenberg) è un ebreo del Bronx che vuole evadere dalla sua New York per cambiare vita. Ed allora eccolo approdare, appunto, a Los Angeles, dove lavora suo zio Phil (Steve Carrell), un impresario estremamente impegnato, la cui occupazione consiste per lo più nel prendere appuntamenti oppure nell’inventarsi fantomatiche telefonate con attrici ed attori importanti.

Nel seguire la vicenda di Bobby emerge prepotente l’ironica malinconia di Allen. E infatti Café Society ci parla di una pressochè perfetta storia d’amore andata in fumo, per scelta deliberata e non per pura casualità. La vita è un brutto affare, insomma, per nulla semplice. Anzi, decisamente complesso. Certo. Però. E però sono proprio le persone a renderla davvero insostenibile, con le loro scelte, per lo più sbagliate, sino ad arrivare ad essere addirittura le più grottesche.

Tuttavia, e qui emerge tutta la sua genialità, Woody Allen non punta il dito verso né contro nessuno, niente affatto. Ce lo immaginiamo così tifare decisamente per i protagonisti della pellicola, e questo nonostante le loro molte e troppe stupidaggini. Eppure lui è lì, accanto a loro, ride con loro in effetti. Ma mai di loro, e per stabilire tale profonda empatia si getta anch’egli nella mischia, pure quando non c’è.

Allen possiede questa innata capacità di stemperare qualsivoglia romanticismo, al quale si sforza continuamente di credere, malgrado alla fine la sua indole – essenzialmente cinica e pessimista – spesso prevalga. Si intravede, sullo sfondo, una critica a quel periodo che si portò via tutto, imponendosi con violenza sull’epoca che più di tutte Allen tuttora ama, ossia quella fugace ma pittoresca parentesi tra la Belle Époque e l’inizio degli anni Trenta per l’appunto. «A chi non piace il Jazz?!», esclama uno dei personaggi, una sorta di atto d’accusa verso chi, volontariamente o meno, ha fatto sì che buona parte delle cose belle di quegli spensierati anni Venti del secolo passato venissero archiviate.

Non tutto, va detto, nel film convince, ed anche quando Allen si lancia in invettive su potere, istituzioni oppure colpisce duro i sempre presenti finti intellettuali, lo fa – in fondo – senza crederci più di tanto. E forse anche di questo Woody Allen si fa beffa quando, al suo alter-ego Bobby, fa esclamare qualcosa del tipo: «questa luce che disegna i grattacieli», nel poetico contesto di una pressoché perfetta Central Park, location che fa da sfondo al tentativo di ripartire dal passato da parte dello stesso protagonista. Parole di Bobby in sostanza. Ma quel sarcasmo lì, così affilato e cerebrale, è tutto di Woody Allen. Ieri, come oggi.

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