di Roberta Lamonica
“Quando scoprii il primo film di Tarkovskij, fu per me un miracolo. Mi trovavo spesso davanti alla porta di una camera di cui allora non possedevo la chiave. Una camera dove io avrei voluto penetrare e dove lui si trovava perfettamente a suo agio […] Se Tarkovskij è per me il più grande, è perché porta nel cinema un nuovo linguaggio che gli permette di afferrare la vita come apparenza, la vita come sogno”.
(Ingmar Bergman)

PREMESSA
Nel 1975 esce nei cinema russi quello che da molti è considerato il capolavoro di Andrej Tarkovskji, da alcuni una criptica opera di transizione che anticipa le atmosfere spirituali di Stalker, di certo quella in cui il maestro russo mette a nudo la sua anima: Lo Specchio (Zerkalo), il film in cui più compiuto è il suo principio ispiratore dello ‘scolpire il tempo’ in immagini liriche, legate in sequenze tramite un ritmo scandito dal tempo interiore, più che dall’ordinato susseguirsi degli eventi. Un film in cui la forma è molto vicina a una struttura musicale per cui la cronologia degli accadimenti è meno importante della forma del loro scorrere, del loro esistere. Lunghi piani sequenza restituiscono scenari onirici in cui il tempo, scorrendo liberamente secondo le proprie ‘non regole’ interne, sembra essere paradossalmente sospeso, fermo in un ininterrotto flusso di coscienza. Il colore (Bianco e nero, seppia), un contrappunto musicale strepitoso e le poesie del padre Arsenij, aiutano il maestro a creare una complessa coesione interna al film ed essenziale diventa per Tarkovskij anche il riproporre oggetti, elementi, personaggi che diano allo spettatore coordinate a cui ancorare le emozioni, che questo film suscita copiose.

LA GENESI E IL TEMPO
Declinando l’invito da parte del rigido Goskino a eliminare due scene che egli reputava essenziali a veicolare il messaggio del film (il prologo e la levitazione di Maria), Tarkovskij riuscì a ottenere per Lo Specchio l’approvazione solo come pellicola di terza categoria, il che significava che il film sarebbe stato proiettato essenzialmente in località periferiche e cinema secondari. Non piacque l’idea che Tarkovskij parlasse di sé in modo così ‘plateale’ e che volesse la presenza della vera madre nel film. Gli obiettarono addirittura che Fellini in 8 1/2 avesse fatto un film autobiografico senza aver avuto bisogno di apparire mai in esso. Ma Tarkovskij non volle rinunciare a caricare il proprio film del tratto espressamente autobiografico e allora sulle pareti della stanza in cui giace il protagonista – che non si vede mai e di cui si sente solo la voce – si scorgono due immagini che marcano inequivocabilmente la sua presenza: la locandina francese del film Andrej Rublev e la fotografia di Marija Ivanovna Vignjakova, sua madre. Lo Specchio è un film perfetto esattamente come lo ha pensato Tarkovskij, con i suoi riferimenti intertestuali difficili da cogliere, con la sua forte tensione spirituale, con la sua struttura narrativa poetica e non lineare e soprattutto con il suo ritmo interno dettato da una trattazione marcatamente modernista e bergsoniana del tempo. Il film ruota intorno al concetto di durée, dunque – da cui Tarkovskij era stato ossessionato fin dall’adolescenza – e soprattutto all’intreccio tra tempo, memoria e ricordi, veri e propri ‘messaggeri dell’inconscio’. Un insieme di sequenze in cui “Passato, presente, ricordi e tempo esistono simbioticamente sullo stesso piano, in un continuo processo di divenire”.

LO SPECCHIO
La Passione secondo Giovanni di Bach contrappunta la scena finale del film: una foresta e campi di grano; una piccola casa di legno, una dacia tra gli alberi; il marito chiede a una giovane Maria se preferirebbe che il bimbo che porta in grembo fosse maschio o femmina. Lei distoglie lo sguardo, sorride e guarda verso la casa di legno. All’improvviso Maria è una anziana signora seguita da due bambini. Si ferma e guarda verso la foresta… Alberi, foglie, rocce, insetti su un albero. Una vecchia bottiglia, pezzi di tronco marci e un buco nel terreno. La donna e i bambini si fanno strada tra gli alberi mentre la giovane Maria guarda, con uno sguardo commosso e consapevole, verso la casa di legno. Maria sta avendo una premonizione del suo futuro: una vecchia signora con due bambini che si aggira dove una volta c’era la loro amatissima dacia. Per un istante la giovane Maria e la vecchia Maria si incontrano e si riconoscono. La macchina da presa segue la vecchia donna e i bambini sparire nel bosco. Tutto è compiuto. Madre e figlio si sono perdonati; l’anima può volar via dalle mani del morente Aleksej, finalmente libero dai sensi di colpa che hanno oppresso la sua vita.

Lo Specchio, questo meraviglioso dono di sé e della sua vita che Tarkovskij fa al suo pubblico, finisce con una vecchia donna che si allontana a passo sostenuto in un campo di grano con due bambini… e si ha la sensazione che quella donna ingrigita potrebbe essere legata in qualche modo anche a noi, che in qualche modo appartenga anche al nostro vissuto. “Grazie per Lo specchio. La mia infanzia è stata così. In quel cinema scuro, mentre guardavo quel pezzo di tela illuminarsi del tuo talento, ho sentito per la prima volta nella vita che non ero sola…”, questo il commento di una spettatrice dopo la visione del film, riportato in Scolpire il tempo, celebre saggio sull’arte cinematografica del maestro russo. E il film è un dono allo spettatore proprio perché nelle sue immagini così dense di suggestioni, ognuno può leggere un pezzo della propria storia personale, declinandole secondo il proprio bagaglio di esperienze individuali e collettive.

Nonostante il film sia saldamente legato alla storia, alla tradizione e alla cultura russe, chiunque può ritrovare nelle sequenze del film oggetti e momenti della propria infanzia, nascosti negli angoli bui della memoria. Il vento che prima accarezza e poi scuote i campi di grano, segnando il passaggio del tempo, in una mirabile sovrapposizione di diversi piani temporali; una giovane donna che aspetta di spalle – i lunghi capelli biondi raccolti sulla nuca in un’acconciatura che attraversa con lei le diverse fasi della sua vita – il ritorno di un uomo che non tornerà. Il cespuglio nella radura sul limitare del bosco che ha un valore simbolico per la famiglia. Un giorno che resta sospeso in una parte di esso non riconoscibile: è l’imbrunire? È l’alba? Un uomo che potrebbe sostituirsi al padre… ”Io sono caduto e qui ci sono tante cose, alberi, erba, radici”. Maria è triste nella penombra della casa e nella stanza della memoria di Aleksej, dove occupa angoli opposti: ora in piedi, ora seduta, ma sempre all’interno di una cornice che ne delimita e limita i movimenti. Aleksej, il narratore e protagonista, è malato non si sa di cosa, forse di inedia, forse di nostalgia. Tarkovskji, di lì a pochi anni, avrebbe lasciato la Russia per non farvi più ritorno. Troppi i lacci alla sua arte, troppe le incomprensioni con il regime.

E il trauma della perdita delle proprie radici e il bisogno di ritornare a ‘casa’ sono base tematica de Lo Specchio. Nel prologo apparentemente slegato dal resto del film, un ragazzo balbuziente viene aiutato da una terapista a ritrovare la parola tramite l’ipnosi. Fin dalla prima scena, quindi, Tarkovskij mostra come i pensieri si facciano sconnessi, balbettanti e il linguaggio fallace e inadeguato quando si deve parlare dei legami, della propria interiorità, dei propri affetti. Il prologo è l’ammissione di un uomo dell’impossibilità di esprimere con le parole il proprio mondo interiore e il bisogno di ritrovare il proprio Io perduto, le proprie radici, la propria madre.

LA MADRE, Il FUOCO E L’ACQUA
Dal suo letto di sofferenza Aleksej rievoca tutta la sua vita e ciò che ha fatto di lui l’uomo che è ora, in particolare, appunto, il suo rapporto con la madre, verso la quale prova un profondo senso di colpa. “Senti mamma, perché dobbiamo sempre litigare? E va bene, se è colpa mia perdonami”, così si conclude una telefonata tra i due. Lui sta morendo, e capisce che carità, amore, perdono e espiazione sono gli unici valori che potranno elevarlo al di sopra delle meschinità e degli egoismi, le lamentele (“Lasciatemi in pace. In fin dei conti, volevo solo essere felice!”), che hanno caratterizzato la sua vita, da anti eroe dostoevskiano. La femminilità, che è una presenza centrale e potente di questo film, non è caricata eroticamente: è quasi angelicata, simbolo vivente di un profondo bisogno di identità; è la casa originaria, quella a cui non si riesce a trovare sostituto nel presente.

E molto del film è dedicato ai ricordi della madre, filtrati dalla memoria del protagonista. La sua solitudine dopo l’abbandono del marito (il padre di Tarkovskij li lasciò la famiglia per un’altra donna) e il fallimento rappresentato nel fienile che brucia riducendosi in cenere, come la sua famiglia. L’immagine del fuoco che distrugge i legami familiari tornerà ripetutamente nel film. Particolarmente significativa è la sequenza in cui, Aleksej adulto sta discutendo con la ex moglie Natalija, che probabilmente presto si risposerà. Il loro figlio Ignat è nel cortile e incendia un cespuglio, metaforicamente forse proprio quello che avrebbe dovuto annunciare il ritorno del padre all’inizio del film. La dialettica fuoco-acqua è centrale nel rievocare i ricordi. Il padre che lava i capelli di Maria e lo sgocciolio dell’acqua che diventa ‘cascata’ e porta tutto via con sé, distrugge le pareti della casa, frammenta la memoria, sgretolandola. Pioggia, pozzanghere, vasche: ampolle di memorie ataviche, esistenze condensate in una goccia e al tempo stesso culla primordiale di nuove anime, nuove esperienze e nuove vite. L’acqua diventa il principale punto di contatto tra la vita e la morte. Acqua dunque, ma anche sogno, ricordo e lo specchio: “un setaccio di buchi fitto, spazio interstiziale del tempo”, come canta R.M. Rilke nel suo sonetto orfico. Attraverso lo specchio Maria è giovane, vecchia e ancora giovane. Il tempo scorre e si sovrappone nello specchio che, nelle parole di Masoni e Vecchi diventa “lo strumento dell’illuminazione e il simbolo della conoscenza che permette di sondare il proprio Io, assorbendo immagini, senza generare alcuna sintesi, senza consentire che una personalità scissa si ricomponga in unità”. Come lo specchio, anche la macchina da presa – che fluida si muove tra le stanze della dacia dove Aleksej è stato bambino e poi tra quelle dell’appartamento dove Aleksej sta morendo – segnala l’ingresso nel regno dei ricordi, stratificata materia essenziale del film. Ora Maria è nella tipografia dove lavora, vuole correggere una bozza dell’edizione speciale del giornale. È convinta di aver fatto un errore: la frenesia, il grigiore del luogo, le voci dei colleghi invidiosi e delatori che si sovrappongono al rumore incessante delle rotative… Oddio!…L’ansia, la paura, la doccia che la lava via tutto e ancora una volta la loro casa che brucia.

LO SPECCHIO, LA STORIA, LA RUSSIA
Lo Specchio può essere diviso grossolanamente in tre momenti temporali: gli anni dell’infanzia (anni ‘30 – ‘40); gli anni della guerra (‘41 – ‘45) e il presente. Ma in tutto il film sono altri gli elementi che segnalano il passaggio del tempo. È l’espressione indifferente sul bel volto di Maria, ora è Natalija, moglie di Aleksej, che segnala il passaggio al Presente, per esempio. Il loro figlio, Ignat è come Aleksej adolescente in un rispecchiamento che anche attraverso la scelta degli stessi attori per interpretare ruoli diversi concorre alla sovrapposizione delle esperienze dei protagonisti. E il volto di Ignat adolescente fa riemergere il ricordo degli anni dell’adolescenza di Aleksej: sono gli anni della guerra. La dittatura stalinista, la Guerra civile spagnola, Mao, il fungo atomico. Le violenze di ieri e di oggi vengono rappresentate in sequenze accavallate in modo schizofrenico come schegge frantumate di un vecchio specchio, riflesso di dolori privati e collettivi. La Storia e l’uomo fanno sempre gli stessi sbagli, incapaci di imparare da essi. Non si è imparato dalle sofferenze causate dalle guerre… Andrej Tarkovskji non ha imparato dagli errori commessi dal padre abbandonando la sua famiglia. Lo ha ripetuto, quello stesso errore e non se lo perdona. “Abbiamo poco tempo”, dice a Ignat la donna apparsa dal nulla seduta al tavolo, e gli fa leggere un estratto di una lettera di Puskin sulla Russia. La Russia è veglia e crepuscolo, enigma ostile e salvifico. È la terra madre. E gli anni dell’addestramento militare fanno parte dei suoi ricordi, la neve croccante sotto gli stivali della ragazza dai capelli rossi che tanto gli piaceva; il suo compagno Asafsja che prendeva alla lettera le sciocche regole militari dello sciocco istruttore. E le sue lacrime e la neve bianchissima e alberi piccoli e grandi spogliati dal gelo dell’inverno. L’orfano davanti l’albero spoglio nella neve, sul cui berretto si appoggia un uccellino sembra una scena uscita da un paesaggio invernale di Brueghel. L’anelito più puro al diritto di avere un’infanzia felice.

E ancora l’alternanza tra passato e presente: il padre che torna, un abbraccio che odora di ‘famiglia’, Il padre decorato, come il padre di Tarkovskji, Arsenij. E il senso di colpa per amarlo così tanto, per averlo aspettato così a lungo, mentre sua madre sacrificava la sua vita per lui e sua sorella. E di nuovo il bosco, la dacia, la nostalgia, la possibilità ma la fatica a entrare nella casa dei ricordi. Oggetti, tovaglie, lampade, vento, vetro, foglie, la madre che pela patate; la luce del fuoco che illumina attraverso le mani; Il latte che cola sul pavimento, Il gallo ammazzato, gli orecchini, la vanità, il sorriso quasi maligno di sua madre, incantevole e ripugnante come i ritratti di Leonardo: “Misura dell’eterno negli istanti che scorrevano innanzi a noi”, come ha osservato Tarkovskij. Le lenzuola ricamate stese nella casa, strati e porte della memoria, Aleksej che impara a nuotare, la mamma che lava i panni allo stagno. Maria ora è vecchia, di spalle come all’inizio. Tutto si ricompone e tutto si frammenta.

La sensazione di smarrimento e il bisogno di riflessione che si provano alla fine del film sono giustificate dalla potenza espressiva delle immagini de Lo Specchio e dalla consapevolezza di aver guardato la verità di un uomo, la sua profonda umanità e fragilità, la poesia di cui è pervasa la sua arte sublime, il bisogno di costruire un cammino spirituale che lo elevi dalle contingenze di un mondo in schizofrenico divenire. La danza dei ricordi, la sospensione dei fatti e la dilatazione delle emozioni. Un’opera semplicemente inarrivabile, un capolavoro senza tempo.
Mi manca questo film. Tarkovskij era un poeta!
"Mi piace"Piace a 1 persona
Lo specchio è un’opera modernista in movimento… da far vedere ai ragazzi quando studiano Joyce, Eliot e Woolf..
"Mi piace""Mi piace"
Grazie come sempre per gli spunti. Non so se insegni. Se si, sarai un’insegnante molto apprezzata dai tuoi studenti. Ne sono sicuro.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Mi vogliono tanto bene, sì ❤️
"Mi piace""Mi piace"