Manila negli artigli della luce, di Lino Brocka (Filippine/1975)

di Girolamo Di Noto

Avere la fortuna di guardare un film di Lino Brocka, maestro incontrastato del cinema filippino, significa vedere la vita in tutti i suoi aspetti, dalla breve illusione di una felicità che può essere solo perseguita e mai toccata fino in fondo, all’amara e tragica consapevolezza di un destino triste e inconsolabile. Tutta l’opera del regista ruota intorno ad una società violenta in cui la corruzione e la brutalità del potere dettano legge. Manila negli artigli della luce rappresenta il documento più visivo, più dirompente, più vitale della storia delle Filippine negli anni Settanta, quando al potere c’era Marcos, ed è giustamente considerata una parabola simbolica e concretissima sull’incontro-scontro tra campagna e città, tra innocenza e violenza.

Il film narra la storia di Julio Madiaga che giunge a Manila alla ricerca della fidanzata Ligaya Paraiso di cui non ha più notizie. Il giovane pescatore abbandona il suo luogo natio vicino al mare che sembra dargli ancora qualche speranza di successo nella vita per affrontare una città tumultuosa, tentacolare. Il film si apre in bianco e nero con le prime immagini di una città al risveglio. Gente che si avvia al lavoro, saracinesche che si sollevano, primi sguardi sonnecchianti di persone alle prese con un altro giorno da affrontare. Poi, di colpo, il volto di un ragazzo fermo in strada che guarda verso l’alto e il bianco e nero diventa colore.

Per mantenersi Julio accetta le durissime condizioni lavorative imposte in un cantiere edile, stringe amicizia con Atong e con Bobby. Pian piano si rende conto che su Ligaya emerge una verità inquietante e il ragazzo scoprirà che il legame tra denaro e sfruttamento potrà essere interrotto solo con la vendetta. Gli eroi di Brocka, è più spesso le eroine, in questo film ma anche in un altro memorabile lavoro del regista, Insiang, sono giovani costretti dalla miseria ad abbandonare la campagna, attirati dalle luci della capitale, dove non hanno alla fine che i loro corpi da vendere.

Le luci del titolo non sono quelle del giorno ma dei neon, presenza costante che accompagna la degradante ricerca del giovane dentro le arterie tortuose della metropoli. Il compito del regista è quello di mettere in scena una realtà che si vorrebbe tenere nascosta, perduta, invisibile. Nel narrare la storia del giovane catturato dalla ragnatela urbana, nel mettere in scena una vera e propria discesa agli inferi dell’uomo che rimanda a Fassbinder, Scorsese e Abel Ferrara, Brocka non fa altro che proporre un cinema di resistenza, fatto di impulsi, nel segno della carne e del sangue, della periferia della città e dei corpi mai riconciliati, degli odori malsani e dell’inquietudine fisica.

Da questo punto di vista il paragone con Pasolini appare più che legittimo; lo avvicinano al regista italiano due aspetti comuni: l’omosessualità dichiarata e il coraggio di avvicinarsi ai corpi dei protagonisti, alla sporcizia, alla baraccopoli, alla poesia di questi luoghi. Julio prova a resistere, combatte, non s’arrende. Ha delle visioni di Ligaya, pensa di averla trovata quando vede una donna attraversare la strada, ma non è lei. Quando ormai ha perso le speranze di ritrovarla, alla fine la incontra ma l’impossibilità di amarsi e vivere liberi prenderà il sopravvento. Brocka segue le evoluzioni del protagonista, la perdita graduale della sua innocenza, la violenza che crescerà pian piano in lui fino a farlo esplodere.

Questo viaggio di un uomo solo nel caos disperante della metropoli è intriso di crudo realismo, melodramma, denuncia sociale. Cinema d’azione e di riflessione popolato da eroi che aspirano alla dignità in un mondo che a loro la rifiuta. Da un lato troviamo gli sfruttatori della povera Ligaya che invece di trovare fortuna è stata trasformata in prostituta, dall’altro c’è Julio che è alla ricerca del suo paradiso, da una parte i superiori di Julio, veri e propri sciacalli, disonesti nel trattenere soldi dalla sua già misera paga, incuranti e indifferenti della morte sul lavoro di un operaio, dall’altra la necessità di non arrendersi e di aggrapparsi ad una minima speranza.

Gli unici momenti in cui Julio trova riparo dalle ingiustizie sono nei ricordi della ragazza e Brocka è abile nel saper alternare scene di realismo duro e dolente ad altre più leggere e lo fa attraverso l’uso del flashback. Scene di visionaria nostalgia quelle del piccolo Julio che gioca con la bambina di cui un giorno si innamorerà, degli sguardi pieni di sogni e progetti dei due amanti innocenti e inconsapevoli destinati ad essere distrutti nelle grinfie e negli artigli di una metropoli che non perdona e che divora senza pietà. L’amore costituisce una breve parentesi di fronte alla crudeltà del destino e Julio non potrà che arrendersi se non attraverso la vendetta, se non scoprendo la violenza dentro di sé implodere.

Curiosa ma di certo non casuale la violenza che Julio destina ad uno dei tanti sfruttatori della città: Ah Tek è la persona sgradevole che sfrutta le donne di strada e il suo nome è un gioco sul termine colloquiale Atik che vuol dire denaro, che rappresenta l’avidità e l’egoismo del personaggio. Straordinario, infine, è il finale con il primo piano al rallentatore della bocca terrorizzata di Julio mentre i suoi aggressori stanno per colpirlo. Un ghigno distorto, rabbioso di un reietto che ha smesso di sognare.

Nessuno come Brocka è mai riuscito a filmare l’assordante grido di questa metropoli, il fango, la lotta quotidiana per la sopravvivenza e la sua denuncia accurata e accorata della misera realtà filippina lo ha portato ad essere padre di un cinema che poi nel tempo ha visto scoprire nuovi talenti, primi fra tutti Mendoza e Lav Diaz. Un maestro che va certamente riscoperto anche se l’impresa non è affatto semplice visto che dei quasi cinquanta film girati tra il ’70 e il ’91, quando scomparve prematuramente per un incidente d’auto, ne sono arrivati in Europa solo una manciata.

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