La pazza gioia (2016), di Paolo Virzì

di Simone Lorenzati –

Loro. I servizi sociali. Loro. I dottori. Loro lo sapevano, sapevano tutto. Che piangevo, che ho sempre pianto, che piangevo per la scuola, che piangevo per i compiti. Ho sempre pianto. Sono nata triste. Depressione maggiore, hanno detto. E allora curami no? Invece che curarmi che fai, mi togli Elia?”

Ha paura Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti). Ed ha ragione. Tutto quello che esiste al di fuori della comunità di Villa Biondi fa male ed addolora. Ma lei scappa ugualmente, inseguendo il suo unico obiettivo, il suo pensiero ricorrente: trovare il modo di vedere Elia. Donatella Morelli attraversa tutto il film con lo sguardo basso e le spalle incassate per non farsi notare, per non farsi vedere da Loro. Se non ci fosse Elia da cercare, da ritrovare, starebbe sdraiata tutto il giorno nel letto.

Ma grazie a quell’obiettivo Donatella trova la forza di fare, di scappare, di dare un senso alla propria vita. Scheletrica ma bellissima, con i capelli corti ed il cappuccio, si nasconde tra le piante per vedere il suo bambino. Grazie ad Elia, e grazie all’altra protagonista del film, l’aristocratica Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), che vive nel passato di una grandeur ormai perduta e non rassegnandosi alla pochezza del presente.

Beatrice al contrario di Donatella, che con quello che ha fatto si misura tutti i giorni e magari riuscisse a rimuoverlo e a perdonarsi, cerca di dimenticare tutto e, spesso, apparentemente, ci riesce.

Con le sue frasi ad effetto (“Ma smettila con questo senso di inferiorità sociale. Se sono servitori, che servano”), con il suo prendere le distanze dalle altre abitanti di Villa Biondi (“Siete povere, siete brutte”), con la sua arrogante irriverenza, con i suoi giudizi tranchant (“Sì, però, comprati un quadernetto dove scrivere le tue cosine, non dipingertele addosso”), Beatrice è un personaggio incapace di fare i conti con la propria realtà. E, tuttavia, è in grado di aiutare Donatella.

È un film molto ben scritto La pazza gioia, dallo stesso Virzì e da Francesca Archibugi. “Ci diamo alla pazza gioia”, dice proprio Beatrice.

E invece si danno a due giorni infernali, prigioniere di un passato che riappare, di parenti pessimi, di uomini terribili. Sballottate in un mondo esterno che preferisce voltarsi da un’altra parte, infastidito, imbarazzato, spesso meschino e crudele. La pellicola ha riscosso molto successo al festival di Cannes, ricevendo un applauso di dieci minuti alla fine della proiezione, insieme agli elogi di pubblico e critica.

Paolo Virzì in questo film si conferma come regista in grado di toccare tematiche profonde con intelligenza e delicatezza. Sceglie delle inquadrature strettissime per raccontarci una storia forte, drammatica e toccante all’estremo. Primi e primissimi piani sottolineano quanto vicino sia lo spettatore a quelle due donne sullo schermo, tanto da percepire l’aria umida e soffocante dell’estate toscana, i capelli appiccicati sulla fronte o i vestiti macchiati di sudore. Le inquadrature rendono tutti gli spazi piccoli, ristretti. Anche una stanza piena di donne che cantano a suon di chitarra sembra troppo piena per il suo contenuto, soffocante e quasi claustrofobica.

Al contrario quando le due donne, in abiti vintage su di una cabriolet rossa, i foulard svolazzanti e gli occhiali da sole tentano l’ennesima fuga, in stile Thelma&Louise, pare di assaporare la loro voglia di libertà. Dunque, le inquadrature. Ma anche i dialoghi. Brillanti e mai ridicoli, divertenti e mai sdolcinati, in grado di reggere le due ore del film. La Ramazzotti e la Bruni Tedeschi insieme sono eccezionali ognuna nel proprio ruolo, capaci di rendere i loro personaggi credibili, folli, disperati, indifendibili ma impossibili da respingere nelle loro rispettive fragilità.

Il film è un’avventura continua tra Livorno, Montecatini e Viareggio (unico neo di Virzì, quasi incapace di emanciparsi dalla sua Toscana), una corsa senza sosta sulle magnifiche note di Senza fine di Gino Paoli. Una corsa verso la ricerca di un modo per affrontare la vita cercando di non uscirne stritolati.


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