Vogliamo i colonnelli, di Mario Monicelli (1973)

Di A.C.

“Anche la marcia su Roma fu una pagliacciata… ma riuscì.”

Nell’Italia degli Anni di piombo, tra attentati e clima di tensione, l’onorevole Giuseppe Tritoni, un politico di estrema Destra e di chiare nostalgie fasciste, si mobilita per ordire un colpo di Stato come rimedio estremo onde evitare che il potere politico finisca nelle mani della Sinistra.
L’operazione viene messa in moto reclutando partecipanti da una lista segreta di ufficiali dell’esercito disposti a prendere parte al complotto. Non mancheranno, viste le premesse, sviluppi imprevedibili.

Ispirato agli eventi del tentato “golpe Borghese”, che progettava le restaurazione del regime fascista come soluzione vincente alla situazione di caos del Belpaese per poi rientrare un attimo prima della sua attuazione. Ma quel mancato pericolo non fu certo l’unico e né l’ultimo di una serie di pensieri di sovversione politica violenta che aleggiavano nell’instabile clima socio-politico dell’Italia degli anni ’70, tra contestazioni, scontento, lotte sanguinose e strategia della tensione.
Una rabbia sociale che, come quella del primo dopoguerra, si prestava a cadere preda delle ingannevoli propagande del fascismo e delle sue logiche distorte. “Ordine, obbedienza e disciplina” come apostrofa l’on. Tritoni ai suoi camerati richiamando proprio l’austerità di mussoliniana memoria.

Cogliendo perfettamente il momento storico che l’Italia stava vivendo, Monicelli imposta l’operazione di uno dei suoi film più anarchici e sferzanti. Sull’ossatura del duo di sceneggiatori Age e Scarpelli va in scena una tanto spassosa quanto ferocissima satira fanta(?)politica, che non risparmia nessuno all’interno del suo scenario.
Perché se da una parte ci sono l’on. Tritoni (un Ugo Tognazzi assoluto mattatore) e i suoi compagni golpisti, latori di quella risibile mentalità machista e di quella sguaiata retorica virile da Ventennio, dall’altra c’è una controparte politica dipinta in maniera tutt’altro che lusinghiera tra comunisti imborghesiti dagli agi del Palazzo, allargando così il raggio dell’attacco di Monicelli a tutto l’assetto istituzionale italiano (cosa che infatti gli portò diverse accuse di qualunquismo all’uscita del film).

Ma quello che fu impropriamente etichettato da alcuni come qualunquista è invece un preoccupante campanello d’allarme di un paese completamente privo di riferimenti istituzionali, in cui la rivalsa di certi rigurgiti ideologici è solo la punta dell’iceberg di una spaccatura interna molto più grande e di una possibile deriva molto più pericolosa, come appunto suggerisce quel finale incredibilmente beffardo.
Tra le opere meno note di Monicelli e al tempo stesso una delle sue più caustiche e cupe. Specchio di una Commedia all’italiana che si stava facendo sempre più tetra, inquietante e aspra, dove nella satira c’è sempre meno risata e sempre più disperazione.
Un film certamente collocato all’interno del suo periodo storico di riferimento, ma che purtroppo non può fare a meno di rivelare anche alcuni risvolti di attualità.

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