di Loredana Castellana

Il film si ispira a dei fatti di cronaca nera rimasti ufficialmente irrisolti e avvenuti a Roma in epoca fascista, tra il 1924 e il 1927. Un criminale si aggira nei quartieri popolari della capitale, adesca bambine molto piccole per poi seviziarle, cinque su sette delle quali verranno assassinate.
Girolimoni, il mostro di Roma è un’opera che ben descrive la dinamica dell’isteria collettiva, cioè quel fenomeno di risposta ai problemi sociali che affliggono una comunità in un dato momento (in questo caso anche storico). Ambienti stressanti, come potevano essere i quartieri poverissimi di Roma in quel particolare frangente, predispongono all’isteria già di per sé.
Del resto, in realtà, trovare il colpevole non interessava veramente a nessuno, se non nella misura in cui questo poteva aiutare a salvarsi „la testa“, ossia la posizione e una certa reputazione. Questo è vero tanto per la famiglia di Tarquinio – il vero colpevole, Gabriele Lavia – che ostinandosi a coprire gli orrendi delitti del perverso congiunto ha contribuito ad un immane depistaggio e occultamento di prove, quanto per la folla, bisognosa di indirizzare la propria rabbia su qualcuno, secondo il ben noto meccanismo di invenzione e imitazione: qualcuno si inventa qualcosa, dando avvio appunto al processo imitativo, concepito come naturale, che ti esenta dal pensare.

Il regista sottolinea fedelmente questo sintomo, che sarà peraltro estremamente funzionale alle tanto amate tresche mussoliniane. La folla agisce senza responsabilità, né razionalità, poiché mentalmente e intellettualmente „immatura“, guidata da istinti incontrollabili e imprevedibili. La personalità cosciente di ognuno svanisce, i sentimenti e le (false) idee si orientano ossessivamente verso una medesima direzione, predomina l’inconscio e le masse si comportano come primitivi.

Damiani cita subliminalmente Freud (ma anche il nostro caro Manzoni), il quale ci insegna che nella massa l’uomo, anche se ha la sensazione di essere più forte in realtà si indebolisce e si lascia andare in maniera repressiva (e regressiva), non risponde più ai propri valori, ma cede alle condotte collettive, laddove il panico e la paura prendono il sopravvento. Le persone tendono a ripetere “pappagallescamente”, ad imitare appunto, azioni e parole di chi hanno accanto, senza neppure sforzarsi di ragionare razionalmente.
Il regista inoltre, ci sorprende quasi umoristicamente con acute battute che mostrano un Mussolini grottesco, che riduce semplicisticamente ogni concetto a „la folla è femmina“, frase emblematica e dal sapore (t)amar(r)o e machista. Praticamente IL mostro che per redimersi vuol necessariamente trovare UN mostro al di fuori di sé!

La messa in scena di un fatto di cronaca effettivamente avvenuto, naturalmente, va ben oltre una ricostruzione delle vicende narrate. A interessare Damiani è la rappresentazione di meccanismi purtroppo attuali, di dinamiche che avvengono molto spesso anche oggi: folle inferocite e assetate di vendetta, giudizi sommari, falso perbenismo, moralismo spicciolo. E ancora: linciaggi mediatici, incuranti dei tragici risvolti sulla vita delle persone, che siano colpevoli oppure no.

Damiani ci racconta come si fa di un innocente un mostro e come si arriva a sbattere il mostro in prima pagina, senza che abbia alcuna possibilità di appello. Ci racconta di un “giustizia” che non chiede rispetto ma che incute terrore e che spesso si compiace del fatto che sia il popolo stesso a dover fare i conti con le proprie disgrazie.
Il film sottolinea anche l’ossessione di Mussolini per una certa opinione pubblica („se il fascismo non serve, che ce sta a fa’?“) e la violenza e le pressioni che egli esercita sulla polizia affinché si trovi un colpevole, che lo sia oppure no! Polizia e stampa sono a sua completa disposizione ed è impedito qualunque tentativo di dissenso.

Insomma le indagini precedono ad un ritmo sempre più incalzante e anche qui emerge un altro tratto tipico dell’attività investigativa, che si svolge con modalità ancor più che fasciste, addirittura proprio naziste: il pregiudizio. Un pregiudizio basato sul concetto del criminale per nascita, quasi come se l’origine del comportamento criminale o la perversione in sé, fossero già individuabili in alcune caratteristiche anatomiche ben precise, che definissero una persona fisicamente o intellettivamente differente dall’uomo „normale“. Mentre, di contro, il perbenismo è sempre vestito a festa ed appare rispettabile (come il nobile che torce le dita alla bimba servetta per costringerla a dare una falsa testimonianza agli inquirenti).
Difatti verranno inizialmente „pescati“ tutti gli uomini con disabilità fisiche e/o mentali e verranno sottoposti ad imbarazzanti ed inutili interrogatori. Fino a che, dai gradini superiori alle borgate, si comincia a puntare il dito su Gino Girolimoni, un fotografo di bell’aspetto che grazie al suo lavoro si è emancipato da una condizione di povertà ed ignoranza, arrivando addirittura a possedere un’automobile.

Girolimoni (il cui carattere è interpretato come sempre in modo sublime dall’enorme Nino Manfredi) è affascinante, benestante, ama le donne, è ironico e conosce bene il proletariato, di cui parla con una buona dose di amaro ma veritiero cinismo, che gli impedisce una comoda autocommiserazione. Si costruisce una vita piuttosto agiata, lontana dallo snobismo borghese, e ciò suscita fastidio e invidia. Tuttavia, seppur sagace e ironico uomo di mondo, proprio per questo pecca di una certa ingenuità e commette un errore di valutazione sulla propria situazione: essendosi nella vita sempre riscattato da condizioni di disagio (la povertà, l’ esser “figlio di enne enne”, persino la guerra), nutre una fiducia spropositata sul solo fatto di essere innocente e quindi immagina di venir presto per forza riconosciuto tale.

Purtroppo questa storia avrà un finale straziante e disperato. La sua identità verrà degradata a quella di mostro senza averne lontanamente alcuna colpa. Il suo nome verrà calunniato e disonorato ancora fino ai giorni nostri (il cognome Girolimoni è ancora usato a Roma come sinonimo di pedofilo) e il senso di impotenza e la conseguente frustrazione che ne deriverà nel non poter vedere riconosciuti i suoi diritti alla restituzione di una immagine „pulita“ nella società, prenderanno il sopravvento fino alla morte, peraltro in assoluta indigenza. Quel tanto anelato e „sudato“ scatto di dignità che aveva contraddistinto il suo procedere positivo in una società tanto difficile, viene brutalmente annientato per il capriccio di pochi loschi figuri.

Insomma Girolimoni si rivela alla fine il capro espiatorio per eccellenza, utile a tutti, che piace (o dispiace) a tutti. Che accontenti il popolino stupido, che plachi l’invidia dei sergenti, che solletichi la vanagloria di Mussolini, assicuri le poltrone ai commissari e i titoloni ai giornalisti! Inizia per quest’uomo un lunghissimo e ingiusto calvario giudiziario che gli rovinerà per sempre la vita e la reputazione, poiché anche se verrà successivamente scagionato (dopo ben undici mesi di prigione!), il regime impedirà di renderne pubblica la notizia. E il povero Girolimoni, uomo onesto e pacifico e per nulla osceno, sarà un’ennesima vittima del regime (quello sì, osceno!) e del duce, che lo legherà per sempre all’ „ineluttabile destino dei nomi… È sufficiente quel nome, per inchiodarlo per sempre all’infamia del suo destino!“.

Appena visto il titolo sono stata assalita dalla stessa pena provata quando avevo visto il film.
La recensione è quanto mai apprezzabile, altrettanto la scelta molto tempestiva di riproporre questa storia emblematica del meccanismo perverso che crea il “mostro” per saziare la voracità collettiva di sentirsi diversi e migliori.
Tra l’epoca della storia e il presente la diversità consiste nell’essere oggi più scolarizzati, ma non ancora più civili.
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