di Bruno Ciccaglione

C’è davvero da rammaricarsi che questo film di Marco Tullio Giordana, da poco approdato su Netflix in mezzo mondo, possa per questo potenzialmente divenire la fonte principale di informazione su cui le nuove generazioni verranno a sapere della strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 alla Banca dell’Agricoltura di Milano. La poca accuratezza e l’approssimazione sul piano storico, unite a una visione ideologica confusa, con più di qualche strizzata d’occhio al botteghino e al mercato, ne fanno infatti un film che avremmo preferito non vedere.
Prevediamo già l’argomento degli “innocentisti”: un artista deve avere la libertà di dare la propria lettura e interpretazione della storia. Ma per farlo perché scegliere la vicenda più emblematica e dirompente della storia Italiana del secondo dopoguerra, ignorando e a volte violentando completamente le acquisizioni storiche (peraltro già ampiamente note all’uscita del film)? Basta la scelta della parola “Romanzo” nel titolo a prendersi così tanta “libertà”? Inoltre, poiché la vicenda della strage di Piazza Fontana è stata il prototipo di tutti i depistaggi di stato successivi, di tutta la “strategia della tensione”, di tutti i Silenzi durati decenni, perché affidarsi al più screditato dei complottisti, Paolo Cucchiarelli e al suo delirante libro “Il segreto di Piazza Fontana”, andando ad aumentare la confusione invece che a contribuire a fare luce?

Due le cose davvero gravi di questa operazione commerciale, al di là delle imprecisioni, delle manipolazioni, delle distorsioni e delle vere invenzioni (nel libro di Cucchiarelli ancora più clamorose, ma in parte purtroppo rilevante mantenute dal film). La prima è che nonostante il film si apra con una dedica alle vittime della strage – come a mettere le mani avanti – il film non le riguarda ed è un peccato; la loro storia e la loro prospettiva, poteva bene dar luogo ad un film molto più interessante (ne è stata fatta una docufiction, Io ricordo Piazza Fontana, che pur con tutti i tipici e gravi difetti di spettacolarizzazione e la retorica del dolore di molte docuserie, per lo meno ricostruisce in modo veritiero il graduale e tortuoso processo di scoperta delle molte verità acquisite). La seconda cosa inaccettabile del film è il senso di scoramento che inevitabilmente produce nello spettatore, inducendolo a pensare – soprattutto se più giovane – un po’ qualunquisticamente e genericamente, che al solito in Italia prevalgono i misteri, che la giustizia non fa giustizia, che i personaggi positivi perdono sempre e così via (le scritte alla fine del film sono il sigillo allo scoramento di quanti abbiano avuto la forza di vedere tutto il film con le sue teorie astruse attribuite al commissario Calabresi o le sue favole mistificatorie attribuite al capo dell’Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D’Amato).

Giordana è troppo preso dal suo progetto “artistico” per preoccuparsi di quisquiglie come la storiografia e la ricostruzione storica della strage. Quel che più gli interessa è fare quello che funziona meglio commercialmente e cioè realizzare il ritratto di alcuni martiri/santi della società civile, che saranno inevitabilmente sconfitti. In questo caso i predestinati di questa opera a tesi sono l’anarchico Pinelli (Pierfrancesco Favino) – secondo il giudice D’Ambrosio morto per un “malore attivo” che lo fece precipitare dalla finestra della Questura di Milano – il commissario Calabresi (Valerio Mastrandrea) – ucciso a colpi di pistola dopo una campagna di stampa imponente che lo riteneva responsabile della morte di Pinelli – e Aldo Moro (Fabrizio Gifuni) – che sarà ucciso 9 anni più tardi dalle Brigate Rosse.

Il film infatti ruota, più che attorno alla strage o alla indagine, attorno a questi tre personaggi che Giordana sembra voler celebrare come martiri, accomunati, secondo il suo confuso punto di vista, dall’essere tutti e tre dei soggetti in qualche modo isolati o “altri” rispetto ai contesti di provenienza e perciò destinati a venire sconfitti o uccisi. Pinelli sarebbe l’unico puro in un mondo anarchico che, sembra incredibilmente suggerire il film, è un mondo di bombaroli (almeno su questo Giordana non segue completamente il suo “mentore” Cucchiarelli, che invece tra i bombaroli include pure Pinelli, oltre che ovviamente Valpreda!).

Calabresi sarebbe l’unico poliziotto buono e democratico dentro un apparato dell’ordine in mano ad un Questore notoriamente fascista e dentro un apparato dello stato (l’Ufficio Affari Riservati e i servizi) che sarà il vero protagonista della strategia della tensione; pur se nella tesi del film si accredita la versione ufficiale della assenza di Calabresi dalla propria stanza al momento del “malore attivo” di Pinelli (che però è la versione di quello stesso apparato di cui Calabresi sarebbe corpo estraneo, mentre il solo testimone non poliziotto presente in questura, un anarchico, per quanti risulti sgradevole, non ricorda di aver visto Calabresi uscire dalla stanza), tuttavia accredita un commissario Calabresi completamente in preda alle teorie cospiratorie più assurde (due bombe e due attentatori che si somigliano per ciascuna delle 5 bombe di Roma e Milano del 12 dicembre, la ridicola teoria di Cucchiarelli).

Infine Aldo Moro, la cui mitezza e pacatezza nel film è contrapposta alla famelica aggressività golpista dell’intero apparato politico statale (abbastanza realistico, si deve ammettere, il ritratto del Presidente della Repubblica Saragat/Omero Antonutti); l’isolamento di Moro, pare suggerire il film, gli sarà fatale anni più tardi; anche qui però, il patto del silenzio tra Moro e l’ala golpista degli apparati (noi vi copriamo, ma voi la smettete di spingere per una soluzione alla greca), tra le poche cose che sembrano ricostruite in modo corretto, stride davvero con il modo empatico con cui Moro è rappresentato.

Giordana li vorrebbe tutti e tre amici questi martiri, tutti insieme da una parte, naturalmente dalla parte della democrazia e del bene e invece vorrebbe mettere tutti i cattivi dall’altra parte. Un perfetto esempio di come la complessità della storia venga piegata alla confusione ideologica dell’autore, che in questo senso ben rappresenta un certo tipo di intellettuale della sedicente sinistra italiana (un po’ alla Jovanotti, che mette insieme Che Guevara e Madre Teresa di Calcutta).
Ecco una immagine dei tre personaggi reali: Giuseppe Pinelli, Luigi Calabresi e Aldo Moro



Una scelta infelice e ingiustificabile, quella di raccontare così questa vicenda chiave della storia contemporanea dell’Italia, che dà poco conto dei contesti e delle complessità, ha paura di prendere posizioni chiare, si concentra sugli elementi più spettacolarizzabili e non fa che contribuire – per la gioia dei depistatori – alla confusione. Un esempio per tutti è la imbarazzante scena dell’incontro, in una libreria Feltrinelli, tra Pinelli e Calabresi, che si regalano un libro a vicenda, unificando in una scena unica due momenti differenti della relazione tra Pinelli e Calabresi e suggerendo quasi una amicizia tra i due. Sappiamo invece che il regalo di Pinelli precedette di diversi mesi il regalo in risposta a quello ricevuto da Calabresi e giunse a Pinelli in una fase in cui gli anarchici erano già sotto inchiesta per gli attentati sui treni dell’anno 1969: Pinelli era considerato da Calabresi e dalla Questura quantomeno uno che li copriva, se non uno dei bombaroli; non c’era sicuramente quella atmosfera distesa e amichevole, in questo secondo scambio di regali (per inciso, poi si scoprirà che tutti gli attentati di quell’anno furono realizzati da Freda, Ventura e gli Ordinovisti, gli stessi autori della strage, mentre l’Ufficio Affari Riservati e i servizi segreti li coprivano indirizzando le indagini verso gli anarchici, preparando il terreno per il depistaggio su Piazza Fontana).

In un sondaggio tra i giovani studenti di Milano, si è scoperto di recente che la gran parte di loro pensa che a fare la strage di Piazza Fontana siano state le Brigate Rosse (sic!). Ancora oggi, come sottolinea nelle sue conferenze Benedetta Tobagi (imperdibile il suo volume Piazza Fontana, il processo impossibile), la sigla Ordine Nuovo – l’organizzazione neonazista che realizzo la strage – è per lo più sconosciuta alla gran parte degli italiani. Il film purtroppo non contribuisce a diffondere invece le moltissime verità ormai acquisite dagli storici, anche se venute alla luce dopo i processi a molti dei protagonisti e quindi non più utilizzabili processualmente. Infatti ormai sappiamo e possiamo tranquillamente dire sia chi siano i mandanti (la strage, come pure quella di Brescia del ’74 fu decisa e realizzata da Ordine Nuovo Veneto), chi siano diversi degli esecutori materiali della strage (Carlo Digilio, di Ordine Nuovo Veneto e uomo legato ai servizi segreti americani, reo confesso, in concorso con Freda e Ventura, di Ordine Nuovo Veneto), con la copertura e i depistaggi di importanti dirigenti dei servizi segreti militari (Maletti e Labruna i soli condannati, probabilmente la punta dell’iceberg…). Uno schema tra l’altro simile anche nella strage di Bologna, come sta emergendo nei processi ancora in corso ai mandanti della strage.

Non possiamo dunque che augurarci che meno spettatori possibili si imbattano nel film di Giordana e che trovino invece stimolo e interesse ad approfondire attraverso i molti strumenti ormai a disposizione. Per una piccola guida critica agli eventi di cui avrebbe dovuto occuparsi un film su Piazza Fontana consigliamo:
- Piazza Fontana, il processo impossibile, di Benedetta Tobagi (Einaudi 2019); si consigliano anche tutte le sue conferenze disponibili su Youtube e relative alla strage di Piazza Fontana;
- La bomba: cinquant’anni di Piazza Fontana , di Enrico Deaglio (Feltrinelli, 2019)
- Pur con i limiti tipici di una certa televisione ossessivamente a caccia di scoop, un buon resoconto delle acquisizioni sulla Strage di Piazza Fontana è ricavabile dalla visione critica della trasmissione televisiva Atlantide – Piazza Fontana, La Strage.