Rosemary’s Baby, di Roman Polanski (1968)

di Roberta Lamonica

INTRODUZIONE

Locandina

Definito di volta in volta “Il più grande film horror senza nemmeno un po’ di orrore al suo interno” (Richard Sylbert), o“Gotico ginecologico” (Penelope Gilliatt) o ancora “una commedia dai toni misteriosi che si trasforma in un mistero dai toni comici” (Stanley Kauffmann), Rosemary’s Baby è il secondo film della cosiddetta trilogia dell’appartamento di Roman Polanski insieme a Repulsion e L’inquilino del terzo piano. Pietra miliare del cinema horror ed esempio insuperato di horror realistico, Rosemary’s Baby è anche un film che diventa “tanto più potente quanto più si evita di inserirlo in una definizione di genere” (Owen Gleiberman).

Di certo Polanski, con la sua fine e approfondita analisi dei personaggi, la sua attenzione a dettagli banali eppur essenziali, con la sua ossessione per lo sradicamento in tutte le sue forme (qui quello spirituale, in primis), con la graduale costruzione della tensione attraverso lunghi piani sequenza che danno la sensazione che l’azione e la vita continuino oltre l’inquadratura, ha trasformato il pregevole materiale horror del romanzo da cui è tratto in un’opera unica, profondamente stratificata e complessa, in cui l’orrore invade la quotidianità dell’uomo contemporaneo. Egli baratta la sua brama di successo, carriera e social standing con l’ imbrattamento del più intoccabile dei valori, la procreazione e l’amore materno, andando così a destabilizzare e risvegliare le paure più profonde dell’animo umano.

Il film, in cui è ben presto chiaro che il bene e il male non sono categorie assolute ma possono essere plasmate e modellate dal ‘desiderio’ umano, si alimenta delle paure del suo pubblico, incrementando gradualmente una forma di paranoia legata al mondo sotterraneo dei culti satanici. Polanski mantiene un atteggiamento possibilista e ambiguo nei confronti della storia: tramite i suoni ovattati ascoltati attraverso le pareti dell’appartamento in cui si svolge prevalentemente l’azione filmica, il posizionamento dei suoi personaggi – siano essi inquadrati o fuori dal quadro, quindi solo intuiti – e gli archi di violino di Krzysztof Komeda, che emettono suoni stridenti come echi di una continuata tortura, lo spettatore aspetta solo la conferma delle sue supposizioni e quando essa arriva, alla fine, è pronto ad accettare ciò che vede come vero.

Oscar a Ruth Gordon come miglior attrice non protagonista e nomination a Polanski per la migliore sceneggiatura non originale, Rosemary’s Baby ha cambiato la considerazione del genere horror nel mondo del Cinema, aprendo la strada a film come L’esorcista (1973), Il silenzio degli innocenti (1991) e Get Out (2017), solo per citarne alcuni. Dall’uscita di Rosemary’s Baby nel 1968, altri hanno copiato la struttura di base della trama o preso in prestito momenti da questo inarrivabile capolavoro, senza mai riuscire a essere nemmeno lontanamente perturbanti nello stesso modo.

TRAMA

Titoli di testa

Il film si apre con una ripresa dall’alto (il diavolo che sorvola il Bramford (?), quasi un rapace in cerca della sua vittima) e una nenia intonata dalla stessa protagonista, Mia Farrow, con voce fragile e incerta su stridenti titoli di testa rosa da commedia sentimentale. Nonostante il parere contrario del loro carissimo amico Hutch (Maurice Evans), i giovani sposi Rosemary e Guy Woodhouse (John Cassavetes – pragmatico, ambizioso e autoreferenziale) si trasferiscono nel Bramford, un edificio storico signorile con una terribile storia di stregoneria (il leggendario Dakota, in seguito teatro dell’uccisione di John Lennon, utilizzato per le riprese esterne). Entrambi sentono l’ansia e il bisogno di rispondere alle aspettative che la società ha sulla realizzazione dei singoli: Guy deve trovare la sua dimensione come attore e Rosemary vuol fare un figlio e creare una famiglia. Nella lavanderia dello stabile Rosemary conosce Terry, (accreditata come Angela Dorian, ma è la modella Victoria Vetri), che vive con i loro anziani vicini, i Castevet. Poco dopo, Terry si suicida apparentemente senza alcun motivo. E’ di fronte al corpo senza vita di Terry che i Woodhouse incontrano gli eccentrici Roman e Minnie Castevet (interpretati mirabilmente da Sidney Blackmer e Ruth Gordon, entrambi perfetti nel ruolo) il cui appartamento confina con il loro. Da quel momento tutta la loro vita sembra prendere un’altra direzione, tutti i loro sogni sembrano realizzarsi. Guy ottiene un ingaggio in un’importante produzione teatrale e Rosemary rimane incinta, come desiderava. Tutto perfetto, salvo il fatto che gli insospettabili Castevet sono ministri di Mefistofele: Guy stringe un patto con loro e faustianamente offrirà al Diavolo la sua anima e il corpo di Rosemary da ingravidare, in cambio del successo personale.

Rosemary quando vede il suo bambino nella culla

Come si diceva nell’introduzione, Polanski mantiene un razionalismo tale da rendere credibile ogni eventuale lettura della storia. La messa in scena è assolutamente realistica – anche grazie alla fotografia di William Fraker – i dialoghi assolutamente naturali e il contesto possibile. Il film potrebbe essere interpretato in modi differenti, eppure risultare ugualmente credibile: Rosemary è una paranoica che, incapace di adattarsi ai cambiamenti nella sua vita, immagina un mondo malvagio intorno a sé, pronto a farle del male e a privarla della sua identità e noi spettatori siamo risucchiati nella sua spirale psicotica, fino ad accompagnarla nel recupero della sua maternità fallita; oppure tutto ciò che le capita accade realmente, nella finzione del film, e risulta comunque realistico e possibile, anche dato il clima culturale dell’epoca.

GENESI

Rosemary e il ciondolo con la radice di tannis

“Sono sempre stato un giocatore d’azzardo: ho sempre rischiato nella vita. Chiunque dica che chi rischia avrà successo di sicuro, mente… In quel caso non sarebbe stato davvero rischiare”.

(Robert Evans)

William Castle, regista di film horror a budget limitato ma dall’intuito sopraffino si impegnò la casa per comprare i diritti del romanzo del 1967 di Ira Levin Rosemary’s Baby, e farne un adattamento cinematografico ma Robert Evans, direttore di produzione della Paramount, pensò che il romanzo fosse materiale di troppo valore per le discutibili qualità registiche di Castle. Rosemary’s Baby era stato un enorme successo editoriale e un’assoluta novità per le modalità con cui l’autore newyorchese aveva costruito la storia, lasciando all’ambiguità, al dubbio, all’assoluta normalità del male, il potere e il compito di costruire tensione e orrore.

Quando Evans propose il film a Roman Polanski, regista polacco che aveva apprezzato in Il coltello nell’acqua, Cul de sac e l’acclamato Repulsion, il giovane cineasta non sembrò particolarmente entusiasta e liquidò il romanzo di Levin come “un melodramma da cucina, adatto per la televisione”. Ma dopo averlo letto si imbarcò nel progetto quasi con fervore mistico, con Castle a produrre il film e a fare un cameo nello stesso. Evans insisté perché il ruolo da protagonista venisse dato a Mia Farrow, allora nota più per essere la moglie di Frank Sinatra che per la sua carriera cinematografica (in realtà aveva guadagnato popolarità essenzialmente per il ruolo della virginale Alison MacKenzie nella fortunata serie televisiva Peyton Place) e la sua si rivelò un’intuizione fortunata perché la giovane attrice si dimostrò perfetta per il ruolo, professionista seria e instancabile che sul set creò una sintonia speciale con Polanski, capace di trarre dalla sua attrice ogni sfumatura e gamma di emozioni possibile. La Farrow non era solo un viso grazioso; in quegli occhi enormi sul viso scarno ed etereo, nella magrezza quasi eccessiva di un corpo dalle fattezze efebiche si potevano riconoscere tutti gli elementi che Polanski aveva intenzione di mettere in evidenza del romanzo: la lotta fra bene e male all’interno di un individuo insospettabile in un contesto ancor più insospettabile, la fragilità della condizione della donna in una società in cui il femminile tentava di emanciparsi ma che manteneva una fortissima impronta patriarcale e soprattutto una messa in discussione del ruolo di madre, della natura sacrale della gravidanza e dell’impatto sulla vita di una donna di quell’essere alieno che da dentro modificava il suo corpo e le aspettative di autodeterminazione della sua vita futura.

Rosemary’s Baby usciva nei cinema il 12 giugno del 1968. Poco più di un anno dopo, tra l’8 e il 9 agosto del 1969, la moglie incinta di Roman Polanski, l’attrice Sharon Tate, sarebbe stata massacrata con altre quattro persone nella villa della coppia di Cielo Drive a Los Angeles da membri della Family di Charles Manson, squilibrato leader e fondatore di un nuovo culto para satanico. Un segno? Una maledizione? Di certo una serie di successivi eventi luttuosi e di coincidenze inquietanti contribuirono alla reputazione del film come pellicola maledetta.

I CULTI ALTERNATIVI

Copertina del Time Aprile 1968

L’uscita di Rosemary’s baby fu accolta da reazioni violentissime da parte della chiesa cristiana che già dall’inizio egli anni ’60 si stava indebolendo di fronte all’ascesa di culti alternativi e a un rinnovato interesse per l’occulto e la magia nera. La copertina della rivista Time nel numero di aprile 1966, che chiedeva “Dio è morto?” in grassetto rosso su sfondo nero, indagava e rifletteva su questa tendenza (un numero della rivista appare in una scena del film nella sala d’attesa del dott. Hill). Il fatto che il Time potesse presentare una tale copertina era segnale allarmante delle ansie dell’epoca, memore delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale, della guerra del Vietnam, della presidenza Nixon, delle morti di Kennedy e Martin Luther King, dei ‘comunisti senza Dio’ impegnati nella Guerra Fredda e delle opinioni di diversi teologi del ‘Dio è morto’ che guadagnavano sempre più popolarità nel dibattito socio-culturale. Sebbene la copertina, sostenuta dall’editore di Time Otto Fuerbringer, mettesse in dubbio l’importanza di Dio in un’epoca apparentemente senza Dio, molti presero la domanda sulla copertina alla lettera, credendo che il male avesse sostituito un Dio ormai morto. In questo clima culturale teso e instabile, in cui certezze millenarie venivano scardinate fin dalle fondamenta prendono vita opere come La notte dei morti viventi di George A.Romero e Rosemary’s Baby, appunto, due film che ridefiniscono i confini della paura spostandoli dal soprannaturale alla quotidianità malata di una società cannibale che non offre più riparo ai propri membri o, addirittura, nel caso del film di Polanski, all’interno della mente stessa della protagonista. Il fatto che il fondatore della Chiesa di Satana, Anton LaVey, fosse stato consulente per il film contribuì all’alone di maligno che circondò a lungo Rosemary’s Baby. E il fatto che una delle assassine di Sharon Tate avesse avuto una conoscenza con LaVey, fu ancora peggio. All’uscita del film le associazioni cattoliche si mobilitarono con diverse istanze: se in America il National Catholic Office for Motion Pictures temeva che il film mostrasse ciò che stava realmente accadendo in quegli anni di deriva spirituale in modo troppo vistosamente dettagliato, per il British Board of Film Censors più che la rappresentazione dei satanisti ciò che disturbava erano gli “elementi di sesso vizioso” del film. In seguito Rosemary’s Baby sarebbe stato accusato di erotizzare l’abuso rituale satanico. Comunque, per tutti gli anni ’70 e ’80, i cristiani fondamentalisti – che erano diventati un potente punto di riferimento politico ed economico nella cultura americana con una nuova forza di sostegno nella presidenza Reagan e nella destra religiosa, cercarono in tutti i modi di operare una sorta di eliminazione attenta e cesellata di tutto il materiale di contenuto satanico, in ogni sua possibile forma.

Tale fu il dibattito pubblico e l’impatto di Rosemary’s Baby – percepito come “il punto di normalizzazione culturale dei concetti satanisti, un film di Hollywood in cui alle persone venivano date delle linee guida su come praticare i rituali satanici” – da porre le basi per un successivo orribile fenomeno di massa, ma stabilendo così il suo posto incrollabile nella storia del cinema.

IL RUOLO DELLA DONNA NEGLI USA TRA GLI ANNI ’50 E ’60 E DELLA MATERNITÀ IN ROSEMARY’S BABY

“E’ vivo!”

(Rosemary)
Rosemary Woodhouse e Minnie Castavet

Ma al di là delle paure e delle possibili soluzioni, anche estreme, allo spaesamento e alla mancanza di sicurezze delle giovani generazioni americane che in qualche modo legava, per esempio, due mondi antitetici come quello dell’occultismo e quello del flower power, ciò che in quegli anni veniva dibattuto e messo in discussione era il ruolo tradizionale della donna, la sua funzione sociale e biologica, le sue aspirazioni e speranze.

Nel film del 1975 di Bryan Forbes La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives), tratto da un altro romanzo di Ira Levin, un gruppo di uomini conservatori e sessisti impiantava microchip nelle proprie consorti rendendole replicanti obbedienti e rassicuranti. La protagonista del film soccombeva ma la sua battaglia per resistere alla ‘sostituzione’ trovava la vittoria nell’assunzione del suo punto di vista nella storia; anche Rosemary’s Baby è raccontato dal punto di vista di Rosemary, la protagonista. Lei è il prodotto di una cultura dominata dagli uomini e quindi si comporta come una guarnizione, in primo luogo per suo marito. E’ mite quando esprime la sua opinione e non riesce a imporla quando si rende conto che sarebbe giusto farlo. La sua fragilità, il suo essere ritrosa e dubbiosa arrivano addirittura a minarne la credibilità, aiutando coloro che vogliono distruggerla e sostenendo cinematograficamente l’ambiguità del racconto di Polanski. Quando non vediamo con i suoi occhi, vediamo ciò che lei vede e mettiamo insieme i pezzi del puzzle come lei, sentiamo le sue paure, la sua perdita di controllo; attraverso primi piani strettissimi seguiamo i suoi cambiamenti estetici che corrispondono anche a una maturazione personale. Il taglio di capelli rappresenta un allontanamento da una femminilità rassicurante e docile, un atto sovversivo e a suo modo rivoluzionario, ecco perché il marito lo detesta. Guy decide per lei, la asseconda in cose di poca importanza ma in realtà Rosemary è completamente soggiogata: le vengono negate informazioni importanti sul suo corpo, non riesce a tenere i vicini lontani dai suoi spazi (che diventano sempre più stretti), viene trattata come una bambina, sopporta tutto ciò che non le piace, obbedendo come si confà a una brava casalinga borghese. E con il suo atteggiamento sottomesso, contribuisce a rendere il sistema patriarcale di cui è vittima, sempre più forte. Il marito arriva a far passare il rapporto sessuale non consenziente – vista l’incoscienza di Rosemary (uno stupro in pratica) – per una cosa perfettamente accettabile. A più riprese viene invitata da tutti i maschi significativi della sua vita a non leggere, come se leggere non fosse importante per una donna e dimostrando come privarla della cultura sia un modo efficace di toglierle potere. L’unico maschio che sfugge a questo pensiero dominante, Hutch, guarda caso, viene eliminato.

Guy e Rosemary nel loro appartamento

Alla base del romanzo thriller-fantascientifico di Levin del 1972 c’era l’idea di una femmina artificiale obbediente e sottomessa che accettasse ogni forma di prevaricazione, vittimizzazione sessuale, subalternità e reificazione perpetrata da parte del maschio e Marshall McLuhan nel suo ‘The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man’, portava avanti la tesi secondo la quale, nell’America degli anni ’50, l’incremento massivo di pubblicità tese alla promozione di uno stile di vita tranquillo e rilassato provasse a bilanciare la crescente paura della Guerra Fredda con un mondo in cui la vita quotidiana rassicurasse un uomo essenzialmente spaesato e spaventato. Il middle class man anni ‘50 doveva essere rinfrancato da una donna il cui unico scopo fosse essere felicemente sposata e contenta di piccole amenità domestiche in forma di gadget tecnologici e altre triviali comodità.

Joanna e Peter (The Stepford wives,1975)
Rosemary and Guy (Rosemary’s Baby,1968)

Il concetto era che la donna con cui costruire una famiglia dovesse essere affidabile, bella, rappresentativa di un modello ideale di società, e se così non fosse stato essa sarebbe diventata pericolosa, minacciosa, a memento dei rischi che l’uomo avrebbe corso se avesse perso il controllo razionale sul suo mondo. Se quindi già negli anni ’50 l’uomo si sentiva minacciato dalla possibile indipendenza della donna, associata a caos, minaccia e squilibrio, negli anni ’60 la liberazione dei costumi e l’emancipazione femminile erano ampiamente in corso e quindi avvertite come ancor più pericolose. In un contesto del genere, nessuna scelta si sarebbe mostrata più trasgressiva di rendere vittima di abusi e subalternità proprio un modello femminile anche esteticamente ‘innocuo’, quasi antitetico a quello che si era cercato di clonare, rendendolo però inoffensivo, per tutto il decennio precedente. Rosemary vuol proprio essere quella donna che asseconda la scalata al successo del suo uomo, obbediente e devota, intenta in lavori donneschi e molto più dedita al benessere degli altri che al proprio. Ingenua, infantile, cattolica, la giovane donna orbita saltellando intorno a un uomo, suo marito, solo apparentemente interessato a lei. Decora, dipinge e arreda la casa, cerca quella stabilità borghese che completerà solo con l’arrivo di un figlio. Eppure, dopo il concepimento, quando le sorge il dubbio che qualcosa di sbagliato stia accadendo nella sua vita, quando realizza che il suo sogno americano è in realtà una trappola mortale, Rosemary prova in tutti i modi a autodeterminarsi: taglia i capelli, dà una festa con i vecchi amici, cerca di uscire da sola, vuole scegliere il medico che si occuperà di lei, cerca di fuggire dalla prigione malevola che suo marito e i vicini hanno costruito per lei. La gravidanza, invece di configurarsi con l’alone di santità e sacralità che le è tradizionalmente proprio, assume le forme ambigue e terrificanti della violazione, della perdita di sé e il prodotto del concepimento si configura come alieno, mostro che altera la percezione della donna di se stessa, la forma più orrenda e inaccettabile di tradimento, la serpe in seno covata per nove mesi, la Creatura di shelleyiana memoria, la summa di tutti gli aborti negati. Se Rosemary avesse saputo cosa c’era dentro di lei, avrebbe probabilmente abortito. Ma l’atto di violenza e prevaricazione si esplicita anche attraverso la negazione della possibilità di autodeterminarsi e di scegliere per il proprio corpo.

Nel suo famoso saggio sul film, Brian Eggert sostiene che”così come l’orrore è intrinseco nel quotidiano, l’evento più naturale del mondo, la maternità, è generazione del maligno, ma soprattutto meccanismo di conformismo da cui poi sarà impossibile sfuggire. Con un’audacia vertiginosa per l’epoca, Polanski affronta la paura femminile della generazione e della totale esautorazione della donna-madre dalla propria soggettività, dalla possibilità, a quel punto, di non aderire alla società”. E ciò che a tal proposito rende questa affermazione dolorosamente vera è il confronto tra le uniche due figure femminili in età fertile nel film: Terry e Rosemary.

ROSEMARY, TERRY E LA DIALETTICA PUREZZA/IMPURITA’

Ti ha scelto tra tutte le donne del mondo. Tra tutte le donne del mondo ha scelto te. Ha organizzato tutto perché tu fissi la madre del suo unico figlio vivente.

(Minnie)
Rosemary e Terry nella lavanderia del Bramford

Rosemary, casta e delicata, si muove nel suo appartamento diventando un tutt’uno con esso, in pratica legando il proprio corpo all’estetica domestica. In confronto, Terry Gionoffrio (Gulliver nella traduzione italiana), la giovane donna che Rosemary conosce nella lavanderia nei sotterranei del Bramford, rappresenta la controparte ‘caduta’ di Rosemary. La mad woman in the attic, la Bertha Mason del basement, Terry ha i colori ambrati di un italo-americana, in contrasto alla carnagione bianca e ‘pura’ di Rosemary. Terry ha un passato di tossicodipendenza e ha quindi inquinato il suo corpo, lo ha reso impuro. Ella confessa a Rosemary che pensava che quando i Castevet l’avevano accolta l’avessero portata a fare “una specie di cosa sessuale”, dimostrando un senso di indifferenza verso il mantenimento dell’ ‘integrità’ del suo corpo. Quando Satana sceglie Rosemary come incubatrice per il suo erede, Terry viene eliminata. Prima, infatti era stata scelta lei per questo ruolo, come il ciondolo con la radice di tannis che viene passato a Rosemary dopo la morte di Terry, testimonia. Così facendo, la donna pura si eleva al di sopra della donna impura. Di conseguenza, Rosemary è ‘degna’ di portare in grembo il bambino e Terry no. Eppure è solo nell’unione di purezza e impurità che la donna può raggiungere una forma di equilibrio e armonia. Quando Rosemary rimane incinta in seguito allo stupro, la santità del suo corpo viene violata. In una delle sequenze (ahimè) più belle del film, Rosemary sogna di essere a bordo di una nave con al timone il cattolico John F. Kennedy che poi si trasforma in Roman Castevet. Guarda stordita i dipinti della Nascita dell’uomo di Michelangelo nella Cappella Sistina e bacia l’anello del Santo Padre, quasi a chiedere perdono, mentre Guy le toglie i vestiti, lasciandola nuda. L’amplesso col Demonio fa assurgere il corpo di Rosemary a fulcro di trasgressione e perdita di purezza con il concepimento.

La ragione per cui la gravidanza è così fastidiosa per Rosemary è perché gli uomini nella vita di Rosemary, Guy in primis, ma anche Hutch, identificano la santità della maternità con l’aspetto esteriore, e sono sconvolti dalla coesistenza dell’orrore nella “madre” (Guy non apprezza il taglio di capelli di Rosemary, Hutch le dice che ha un aspetto orribile).
Rosemary riesce finalmente a rivendicare la sua autonomia corporea e mentale quando accetta la natura ambigua della maternità in rapporto alla purezza e rifiuta le opposizioni binarie puro/impuro, proprio/improprio create dagli uomini della sua vita. Nel suo saggio “Birth Traumas: Parturition and Horror in Rosemary’s Baby”, Lucy Fischer (1992) identifica il momento della redenzione quando Rosemary passa attraverso la porta segreta dietro l’armadio-ripostiglio. Nel rimuovere la barriera tra il domestico e l’occulto, Fischer afferma, Rosemary “negozia la geografia che collega il parto idealizzato e il suo terreno inquietante”. Invece di temerlo, la protagonista fa suo il precario equilibrio tra santità e perdizione.

Rosemary culla il suo bambino

Quando entra nella stanza e scopre la natura demoniaca del suo bambino (che Polanski sceglie di non mostrare mai), è inorridita. Eppure, dopo aver sentito il pianto del bambino, e con qualche sollecitazione da parte di Roman Castevet, Rosemary lo culla con naturalezza. Nella sua camicia da notte blu, è l’immagine della Vergine Maria, simbolo del sacrificio di sé per suo figlio, una Vergine privata della perfezione che ha accettato la violazione e la caduta come condizione per il concepimento. Alla fine del film, Rosemary nella apparente acquiescenza al patriarcato demoniaco che l’ha violata, diventa agente centrale nel suo ruolo di donna e madre, ridefinendo i rapporti di forza all’interno del suo matrimonio (sputa in faccia Guy) e della sua maternità (allontana l’anziana strega che sta cullando suo figlio). Inevitabile accostare la figura di Rosemary a un precedente letterario tanto caro a Polanski, quella Tess of the D’Urbervilles di cui avrebbe cantato l’elegia nel bellissimo film con Nastassja Kinski. Una donna, fatalmente destinata, capace del sacrificio estremo di sé ma che nel momento della morte diveniva finalmente agente e non agita da una società ingiusta e maschilista.

I VICINI, L’APPARTAMENTO E LA SOCIETA’

Minnie e Roman Castavet

La messinscena realistica, la presenza di volti solo apparentemente familiari e di atteggiamenti solo apparentemente spontanei e disinteressati, l’inquietudine di trovarsi minacciati nel luogo più sicuro, la propria casa, il senso di non appartenenza e di sradicamento, l’assunzione di enorme rilevanza di oggetti insignificanti percorrono e definiscono da sempre il cinema di Polanski. Le sue paure derivano dalle cose orribili che le persone saranno capaci di fare, se costrette a farlo. Polanski è ossessionato dalla follia, in particolare quelle forme di psicosi che si manifestano in uno spazio limitato. Prima di questo film, realizzò Repulsion nel 1965, e poi L’inquilino del terzo piano nel 1976: come già detto, una trilogia tematica. Ognuno si svolge in un appartamento sempre più angusto, i rispettivi protagonisti diffidenti nei confronti dei vicini, dei rumori e della storia dell’edificio stesso. Le pareti sembrano chiudersi gradualmente e soffocare l’interno, mentre il mondo dentro le loro teste è impazzito da tempo.

Ruth Gordon (Minnie Castavet)

Ciascuno di questi film costringe il pubblico a mettere in dubbio l’affidabilità del personaggio centrale. Forse negli altri due film, lo spettatore potrebbe vedere il conflitto come perpetuato dalle ansie interne e dall’instabilità mentale dei loro protagonisti, ma non si può dire lo stesso per Rosemary’s Baby. Questo è un film del suo tempo, che attinge alle paure del suo tempo, misogino e femminista al contempo; è un film su una donna e il suo bisogno di avere il controllo sul suo corpo in un momento in cui l’idea dell’aura sacrale intorno alla gravidanza legata al background cattolico, che allo stesso tempo ne ha determinato la totale mancanza di assertività, lascia il posto alla paura umana e razionale, molto moderna, che qualcosa andrà male, che dentro di sé sta crescendo qualcosa che non sarà mai suo, ma di una società che ne reclama la proprietà e l’appartenenza. E’ un film sulla paura di vivere in una grande città, con i suoi rumori molesti, i suoi cittadini grotteschi, spaventosi come orrendi clown, invadenti in modo inesorabile. E’ la paura di una brava ragazza cattolica di provincia di far male, di commettere peccato. E quindi, se portare in grembo il figlio del diavolo rappresenta uno scenario orribile e rivoltante, la realtà può esserlo molto di più: questo sembra dire Polanski, il suo film e la serie di eventi luttuosi a esso in qualche modo legati. La società, un appartamento e il proprio stesso corpo diventano prigione per l’individuo che perde la possibilità di scegliere.

Rosemary e il suo isolamento

Il dolore e la paura di Rosemary sono vivi, reali, percettibili, gridati: il grido di aiuto soffocato di una donna che lega la sua condizione a una tradizione millenaria che arriva fino ai giorni nostri. Dolorosamente e in modo sempre più inaccettabile.

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