Da Hiroshima mon amour ad Amour: la lunga storia d’amore di Emmanuelle Riva con il Cinema

di Marco Grosso

Emmanuelle Riva nei due film

Giorni fa ho finalmente recuperato il magnifico e straziante Amour (2012) di Michael Haneke. Era un film che più o meno consciamente temevo e di cui avevo pre-sentito l’onda d’urto emotiva. Solo durante la visione del film ho letto il nome dell’allora ottantacinquenne attrice protagonista e riconosciuto in quello stesso momento, tra le rughe di quel viso segnato e rassegnato, la giovane, affascinante e indimenticabile Elle di Hiroshima mon amour (1959). 

Così mi è venuta voglia di ripercorrere la biografia umana e artistica di Emmanuelle Riva e di abbozzare un breve ritratto di questa splendida anti-diva del cinema d’autore, senza dubbio una delle grandi muse del cinema francese (e non solo).

Emmanuelle Riva, pseudonimo di Paulette Germaine Riva, nasce a Cheniménil il 24 febbraio 1927 da un’umile famiglia operaia di origini italiane. La finezza del suo sentire e la sua dirompente passione per la letteratura e per il grande teatro si manifestano precocemente insieme al sogno della recitazione. Alcuni anni dopo la fine della guerra, contro il volere della famiglia che la voleva impiegata nel settore della sartoria, riesce ad essere ammessa alla Scuola nazionale superiore di Arti e Tecniche del teatro e grazie a una borsa di studio si trasferisce nel 1953 a Parigi. Qui comincia come costumista teatrale ma l’anno seguente debutta in teatro nello spettacolo Uomo e Superuomo di G. B. Shaw. Nel 1957 esordisce al cinema in Le grandi famiglie di D. de la Patellière, ma la consacrazione mondiale arriva nel 1959 con il memorabile ruolo di protagonista di Hiroshima mon amour, uno dei più potenti e poetici capolavori della Settima Arte, uno dei tre film-manifesto della Nouvelle Vague, una radicale confutazione di stampo proustiano delle strutture narrative tradizionali, il primo lungometraggio di Alain Resnais, scritto dalla grande Marguerite Duras. 

Il film è strutturato e montato, narrativamente e visivamente, mediante gli intrecci paradossali della memoria e dell’oblio (della doppia necessità/impossibilità di ricordare e dimenticare un vissuto intimo/individuale e insieme storico/collettivo), del dovere del cinema di raccontare l’irraccontabile e di dire – per parole/immagini – l’interdetto e l’inguardabile, in una parabola di comunione del dolore dentro la sua stessa incomunicabilità.

Locandina di Hiroshima mon amour
in Hiroshima mon amour

In ogni sua interpretazione Emmanuelle Riva rivela un’eleganza innata e un carisma singolare. La sua voce, il suo volto, le sue movenze intrecciano ossimoricamente vulnerabilità e forza, un senso di straniamento e di assenza quasi spettrale dalla scena con una presenza scenica magnetica che lascia il segno in ogni suo movimento espressivo. 

Dopo questa prova sontuosa, reciterà altri ruoli significativi in film di grandi maestri come Kapò (1960) di Gillo Pontecorvo e Adua e le compagne (1960) di Antonio Pietrangeli, Léon Morin, prete – La carne e l’anima (1961) di Jean-Pierre Melville, e Il delitto di Thérèse Desqueyroux (1962) di Georges Franju che le valse la Coppa Volpi alla 23esima Mostra del Cinema di Venezia.

Kapò di G. Pontecorvo (1960) – Adua e le compagne di A. Pietrangeli (1960)
Thérèse Desqueyroux di G. Franju (1962) – Léon Morin, prêtre di J.P. Melville (1961)

Successivamente le accadrà sempre più di rado di interpretare ruoli all’altezza del suo talento, eccetto in alcuni film a forte impronta letteraria, tra i quali spiccano Gli occhi, la bocca (1982) di M. Bellocchio o Liberté, la nuit (1983) di P. Garrel. Nel 1993, dopo un’assenza dalla scena cinematografica (ma non da quella teatrale) durata una decina d’anni (durante i quali sembrò ingiustamente dimenticata da molti registi) le viene offerto un ruolo di rilievo da K. Kieślowski nel suo Film blu (secondo capitolo della celebre “trilogia dei colori” del maestro polacco), in cui la Riva interpreta la madre della protagonista Juliette Binoche.

Gli occhi, la bocca di M. Bellocchio (1982) – Trois couleurs: Bleu di K. Kieslowski (1993)

Da quel momento ricomincia a lavorare in diversi film finché nel 2012, all’età di 85 anni, giunge inaspettatamente per lei la prova attoriale più ardua della sua carriera cinematografica: impersonare Anne, la protagonista nel capolavoro del regista austriaco Michael Haneke Amour (pluripremiato vincitore del festival di Cannes 2012) al fianco di un anziano e monumentale Jean-Louis Trintignant in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche. 

Di nuovo, a distanza di 53 anni da Hiroshima mon amour, l’odissea di un amore e di un dolore che separa e unifica un uomo e una donna, ancora un’opera sulla dignità della vita offesa e sulla disperata resistenza a un destinale oblio, ma “Hiroshima” stavolta è quella tutta privata e parimenti inesprimibile che si consuma tra le pareti della casa di Anne e Georges, nel cuore della loro quotidianità compassata e composta, semplice e complice, di colpo stravolta e devastata dall’”atomica” della malattia che di lì a poco piegherà e immobilizzerà Lei nel corpo e nella mente, Lui nell’anima.

Amour è un film radicalmente antiretorico, antiromanticamente romantico, spietatamente vero e dolente, che non indugia mai nel patetico e nel lacrimoso com’era quasi inevitabile che avvenisse in un film come questo. Il tema della violenza ludico-sadica esplorato da Haneke nei suoi film precedenti (dal Funny Games del ‘97 al Funny Games del 2007, da Il nastro bianco a La pianista) qui viene declinato come gioco crudele e perverso che la natura stessa, attraverso la tortura della vecchiaia e della malattia, compie non solo sul corpo e sulla mente di una donna ma sulla carne e sullo spirito di una relazione salda, fondata sul più sincero e mutuo rispetto, sulla comunanza delle passioni e dei percorsi di vita, sulla leggerezza dell’ironia.

Anne e Georges, sono due anziani pianisti ed ex insegnanti di musica in pensione che trascorrono il loro tempo tra letture, pasti frugali e faccende di casa, qualche uscita serale specie per concerti di musica classica, le visite sporadiche di un giovane ex allievo di successo e quelle di una figlia, a sua volta musicista (Isabelle Huppert), trasferitasi all’estero con la sua famiglia e tutta presa tra carriera, familiari e ricerca di una nuova casa. La loro esistenza simbiotica e rituale viene troncata in due da un primo e poi da un secondo ictus che spengono poco a poco Anne privandola in breve tempo della sua autonomia di movimento e di parola, infine della lucidità mentale e della sua condizione di dignità. Georges affianca e sostiene Anne in ogni sua regressione, resta fedele fino alla fine alla promessa di non riportarla in una clinica e di essere curata nella loro casa, assiste all’inabissamento della consorte con una disperazione mai urlata, temperata dal pudore e sorretta dal desiderio di restituire alla sua Anne l’illusione di una vita normale, tollerabile, dignitosa.

Amour – locandina

Per questo ruolo la Riva lavora per sottrazione, riproduce perfettamente le movenze delle ottantenni precipitate nello stato di Anne ma con quel taglio espressivo vibrante e minimalista che la contraddistingue. Così rende con impressionante autenticità l’inesorabile e progressivo svanire di Anne a se stessa e allo sguardo del marito che prova a tenerla viva raccontandole piccoli aneddoti rimasti inespressi, legati al proprio passato e alla propria giovinezza. Negli sguardi di Anne, smarriti nel labirinto della sua memoria intermittente, torna l’horror vacui dell’oblio e il bruciante bisogno di ricordare, di non perdere per sempre il filo del vissuto e del convissuto, torna in diversa forma e in ben altro contesto l’ossessione della Elle di Hiroshima mon Amour. Così si compie, dolorosamente, la parabola di Emanuelle/Elle/Anne dal capolavoro di Resnais a quello di Haneke, a distanza di mezzo secolo, in una nuova Hiroshima domestica ed esistenziale riscritta sul corpo martoriato di Anne, sulle macerie della loro esistenza condivisa su cui non potrà che scendere il silenzio dell’ultima e unica parola in grado di corrispondere all’indicibile e di reggerlo: Amour.

Eppure non c’è alcuna consolazione e nessuna retorica salvifica in quel silenzio, e neppure nella sequenza delle finestre della loro casa/sepolcro spalancate da altri nel finale introduttivo del film. C’è solo l’amore violato che si ritira dal mondo e perfino dallo sguardo dei vicini e degli affetti più cari, nel tentativo di preservare la sua dignità e di resistere alla crudeltà del destino, nella disperata speranza di consegnare alla morte una goccia di splendore. Haneke fa ancora una volta dello spettatore un testimone e un voyeur, impotente e con-sofferente, di ciò che in questa società è di norma segretato, culturalmente e socialmente occultato, diventato tabù ma che riaffiora fatalmente nei modi più deformi, disturbanti e indecifrabili.

In Amour il male latente si fa monstrum (in senso etimologico) nei segni e negli insulti della vecchiaia/malattia/solitudine/morte di due anziani sposi (“male!” è la parola che in automatico ripete compulsivamente Anne inchiodata al suo letto); in Funny Games prendeva forma nei rituali più perversamente gratuiti e sadici messi in atto da un gruppo di giovani sequestratori di una famiglia nella sua villa; in Il nastro bianco era la radice di ipocrisia e doppiezza che prolifera e si mimetizza nelle strutture eticamente corrette di un microcosmo sociale pronto ad essere metabolizzato dal nazismo; in Caché – Niente da nascondere si manifestava nelle misteriose e anonime videocassette recapitate a casa del protagonista – un critico letterario e conduttore di un programma tv, irreprensibile marito e padre di famiglia – nelle quali appaiono frammenti criptici del suo vissuto e dei luoghi in cui ha vissuto (espressione di un rimosso individuale ma anche di un rimosso collettivo come quello della guerra d’Algeria per la coscienza dei francesi); in La pianista era la patologica perversione sadomasochistica di una pianista talentuosa e bipolare schiacciata dal demone di un’anziana madre possessiva e maniacale. Ad ogni modo nessuno potrà comprendere l’amore tra Georges e Anne, né dentro né fuori dal film, come nessuno potrà giudicare il gesto finale, estremo, tragicamente contraddittorio, insieme terribile e compassionevole di Georges.

Alla fine, nel silenzio impenetrabile e invocante di quella casa/prigione/tempio/sepolcro, sembra aleggiare solo quel verso finale, antico e mai invecchiato, del Cantico dei cantici: “perché forte come la morte è l’amore”.

Emmanuelle Riva e Jean-Louis Trintignant

Desidero concludere con le parole ispirate che utilizzò la stessa Emmanuelle Riva quando le fu chiesto cosa l’avesse spinta ad accettare quel ruolo così difficile e coraggioso: “Sono rimasta immediatamente coinvolta da questa storia d’amore e malattia. Una storia d’amore, tra l’altro, che non viene mai dichiarata a parole. Perciò, siamo davanti ad una vicenda in cui c’è il verbo che diventa carne. Ecco che cosa mi ha affascinato”. Per questa sua ultima prova cinematografica la Riva si aggiudicò il premio come miglior attrice agli European Film Awards e una nomination, nella stessa categoria, agli Oscar 2013.

Emanuelle Riva non è stata solo attrice di teatro e di cinema ma anche poetessa. Ha pubblicato diverse raccolte dai titoli evocativi, come Appena superato il fischio del treno (1969), Il fuoco degli specchi (1975), L’ostaggio del desiderio (1982). L’ultima sua opera letteraria è anche una delle ultime testimonianze del suo spirito: Danzerai senza muoverti, titolo che ci sembra quasi rivolto al suo ultimo alter ego, Anne.

Il 27 gennaio 2017, all’età di 89 anni l’attrice si spegne, dopo una lunga malattia, a Parigi.

Un’altra goccia di splendore consegnata alla morte e all’eternità.

Un’altra splendida immagine di Emmanuelle Riva

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