Train de vie – Un treno per vivere, di Radu Mihaileanu (1998)

di Simone Lorenzati

Locandina

Si ricomincia a ballare, a suonare. Il più felice è Shlomo, che balla meglio di tutti. Ha una lunga casacca bianca, un cappellino nero. La sua allegria e il modo di muoversi sono contagiosi.

Si può trattare in modo ironico e satirico l’olocausto, senza retorica e cattivo gusto, e senza scadere oppure degenerare? A guardare Train de vie, del regista rumeno Radu Mihaileanu, parrebbe proprio di sì: e questo film, in effetti, gioca un ruolo essenziale nella cinematografia del genere, cinematografia che solitamente è propensa unicamente a presentare storie tragiche, focalizzando la propria visuale sull’ottica di un protagonista (tendenzialmente una vittima).

Train de vie sa ironizzare su di una immane tragedia senza sminuirne la portata, giocando su di un equilibrio delicatissimo e, soprattutto, facendo tutto ciò in modo assolutamente credibile: e – nel frattempo – uno dei protagonisti dell’opera si domanda quanto potrà mai costare un biglietto per la Palestina, oppure “se deportarsi da soli ti sembri da sani di mente”.

Train de vie è una successione incalzante di avvenimenti, che alternano tradizioni yiddish ad imperdibili siparietti profondamente parodistici: i personaggi che si dividono in fazioni politiche o religiose, del resto, sono degni di un film dei Monty Python. Il finale, poi, è un’autentica sorpresa, che solo la visione completa della pellicola potrà far gustare appieno.

Train de vie può essere considerato, senza mezzi termini, un capolavoro del genere, in quanto mostra uno scenario assolutamente verosimile, possedendo una visione globale della cultura e della società dell’epoca, ed esprime una capacità di fare satira efficace in chiave anti-nazista. E, come ulteriore pregio, riesce anche a rifiutare qualsiasi collocazione aprioristica in una religione oppure in una ideologia politica.

La storia è ambientata nel 1941, anno in cui gli abitanti di uno shtetl dell’Est europeo organizzano una straordinaria messa in scena per sfuggire ai nazisti. Mimetizzano un convoglio ferroviario, comprato pezzo per pezzo, facendolo divenire un treno di deportati e partono per la Terra Promessa.

Ciascun abitante del villaggio ebraico deve recitare la propria parte: vi è chi impersonifica un prigioniero, chi un nazista tedesco, tutto ciò mentre un impiegato delle ferrovie s’improvvisa manovratore. Ed è così che si innesca una specie di psicodramma collettivo, dove ciascuno tende a identificarsi sempre di più con il proprio ruolo. Mentre il mercante Mordechai diventa un perfetto ufficiale nazista, una fazione si converte al marxismo e istituisce il soviet del treno (zeppo di prigionieri che valgono il doppio, come spiega Mordechai a un nazista vero: ebrei e comunisti in un colpo solo).

Il tono prevalente in Train de vie – a differenza, tanto per dire, de La vita bella, altro capolavoro sul tema, sostanzialmente contemporaneo all’opera del regista rumeno – è quello della farsa, con un tono temperato dall’umorismo tipicamente yiddish, che riesce a far convivere comicità, dramma e malinconia. Malgrado le caratterizzazioni, un filo macchiettistiche, di certi personaggi, e la scelta, talvolta di eccessiva ingenuità, con cui la storia è raccontata, i riferimenti di Mihaileanu sono molto più raffinati rispetto alle apparenze: da Cioran all’assurdo di Ionesco, al classico film di Ernest Lubitsch (ebreo dell’Est come lui) “Vogliamo vivere”, che nel 1942 metteva in commedia l’incubo nazista giocando proprio sullo scambio tra realtà e rappresentazione.

Altrettanto raffinate alcune battute – i dialoghi dell’edizione italiana sono curati da Moni Ovadia – quella, ad esempio, che definisce lo yiddish “una parodia del tedesco, con dentro l’ironia”. Dopo infinite peripezie, incluso l’incontro con un altro treno in maschera su cui viaggiano gitani alla Kusturica (e qui l’impressione è sottolineata ulteriormente dalle musiche ossessive di Goran Bregovic), la storia si avvia verso un lieto fine. Eppure un secondo finale fa riemergere l’angoscia, inquadrando l’insieme del racconto di Schlomo, ossia il matto del villaggio nonché l’ideatore stesso dello stratagemma.

Come se Mihaileanu volesse ammonirci: sarà poi mica l’idea di un pazzo raccontare così l’Olocausto? Forse sì. Eppure, l’essenziale, è non dimenticarci mai che cos’è accaduto. Perché quello è accaduto davvero.

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