Il settimo sigillo, di Ingmar Bergman (Svezia/1957)

di Girolamo Di Noto

Non si può parlare della morte nel cinema, della morte mostrata dal cinema, senza partire da Bergman e da uno dei suoi film più importanti, Il settimo sigillo. C’è un’immagine simbolo, un’invenzione figurativa presente nel film destinata a imprimersi nella memoria dello spettatore, un’icona che toccherà le corde più profonde dell’animo: la sfida a scacchi tra Max Von Sydow, il Cavaliere Antonius Block e Bengt Ekerot vestito di nero, che rappresenta la Morte.

Sulle rive di un inquieto mare incolore, il Cavaliere l’ha incontrata al ritorno dalla Crociata in Terra Santa, dove aveva creduto di trovare uno scopo alla sua vita. È tornato invece amaro e disilluso, con il cuore vuoto. Per questo motivo chiede ancora un po’ di tempo alla Morte sfidandola a scacchi. È consapevole che perderà, ma tentando di guadagnare tempo cercherà di trovare una qualche ragione all’esistenza, un’occasione per compiere almeno un’unica azione che abbia un senso.

Il settimo sigillo è essenzialmente la storia di un uomo solo alla ricerca del significato della vita. “Quello che voglio è conoscere, non credere – grida il Cavaliere – non voglio una fede cieca, non voglio ipotesi, voglio la conoscenza!“. È un racconto affascinante trattato con tale immaginazione, stile e senso della suspense da far sentire lo spettatore, come disse Woody Allen, “come un bambino di fronte a una favola straziante e avvincente al tempo stesso“.

Tratto dal testo teatrale Pittura su legno, scritto dallo stesso Bergman nel 1955, il film attinge la sua ispirazione sia dall’iconografia popolare e suggestiva rappresentata dagli affreschi medievali presenti sulle austere pareti delle chiese campestri, sia dall’infanzia del regista, figlio di un pastore protestante, abituato a seguire il padre durante i suoi spostamenti pastorali. Lo stesso regista così rievoca quei ricordi: “Come tutti quelli che sono stati in chiesa, in qualsiasi epoca, mi sono messo a osservare i dipinti al di sopra dell’altare, il trittico, il crocefisso, le finestre dipinte, gli affreschi. C’erano Gesù e i ladroni feriti, Maria appoggiata a Giovanni, il cavaliere che gioca a scacchi con la Morte. La Morte sega l’Albero della vita, un poveretto terrorizzato è seduto su in cima e si torce le mani. La Morte conduce la danza verso la Terra oscura”.

Già da queste parole riportate nel suo libro Lanterna magica si rivela l’intenzione da parte di Bergman di dipingere allo stesso modo del pittore medievale, emergono furiose sequenze come la danza macabra della Morte che afferra e costringe tutti a seguirla o quella della Morte che sega l’albero che ritroveremo nel film rendendolo dal punto di vista figurativo grandioso e dal fascino innegabile.

La raffigurazione della Morte nel film prende forma da due diversi personaggi: lo scheletro e il clown bianco. Appare al Cavaliere sulla spiaggia, col suo classico mantello nero, ha la passione per gli scacchi e una falce che richiama le pitture medievali e luterane. Ha un volto inespressivo e bianco, ripreso dalla tradizione circense. Quando pensiamo al circo inevitabilmente i pensieri si aggrappano a Fellini, ma anche Bergman nella sua vasta filmografia ha ripetutamente messo in mostra saltimbanchi e buffoni, trapezisti e domatori: basti pensare a Una vampata d’amore la cui carovana di guitti movimentata da una serie di tragiche maschere si riproporrà ne Il settimo sigillo, nella sconnessa compagnia di cavalieri erranti e di buffoni che attraversa la spettrale Apocalisse, con il destino segnato.

I vari personaggi, il Cavaliere, lo scudiero Jöns, l’attore Skatt, il fabbro Plog e la moglie Lisa, il farabutto Rayal, la Strega-bambina condannata al rogo, vanno incontro al loro destino. La Morte non è certo una giocatrice che si lasci sconfiggere. Eppure il Cavaliere riuscirà a ottenere una piccola vittoria: durante la partita decisiva riuscirà a distrarre la Morte quanto basta per far fuggire Mia e Jof, la felice coppia di giocolieri che incarna quell’amore genuino, quella semplicità delle piccole cose, quel frammento di serenità, di piccola soddisfazione consentita all’uomo sulla terra.

Mia e Jof – come tutti i personaggi del film – sono personificazioni di archetipi morali e cristiani. I due saltimbanchi e il loro bambino rappresentano una famiglia che racchiude l’essenza del Bene e del Male che si può trovare nell’umanità. Lo scudiero Jöns, ateo e scettico, è rappresentante della fredda ragione, il Cavaliere si fa invece portatore degli interrogativi più tormentosi a cui neanche la Morte sa rispondere.

Emblematica è la scena in cui Block pensa di confessarsi a un frate non essendo però a conoscenza che il confessore è la morte stessa. “Ma perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? Per quale ragione si nasconde?”. Bergman è straordinario nel riuscire ad esprimere idee astratte con immagini da mozzare il fiato e la griglia del confessionale dietro cui il Cavaliere è attanagliato dalla coscienza della propria impossibilità di sapere, diventa una potente metafora della vita come prigione, senza dimenticare la valenza simbolica che ha la ragazza costantemente muta, sorta di testimone silente del disperato dramma dell’uomo.

Altri elementi caratterizzanti del film sono la corruzione del potere, la violenza dilagante, la superstizione, la presenza della peste che dà al mondo uno scenario apocalittico. Eppure, sullo sfondo cupo di un mondo alle prese con una terribile fine, Bergman non abbandona la speranza e affida nel sorriso dei saltimbanchi il senso della vita. Non è un caso che questa fiducia venga riposta nell’Arte, i cui custodi non si tormentano più né si arrovellano con interrogativi inquieti ma vivono e apprezzano le piccole cose: il silenzio del crepuscolo, la ciotola del latte, il profumo delle fragole.

“Terrò questo ricordo tra le mani come se fosse una coppa colma fino all’orlo di latte appena munto”, dice Block a Mia quando gli offre il latte e fragole di bosco. Per un attimo si è sottratto alla lotta con il proprio Dio muto e inflessibile, ha vissuto la sensazione della piccola ma necessaria felicità. La bellezza di questo film è tutta racchiusa nello stile del regista, nel suo modo impeccabile in cui fa percepire la solitudine dell’uomo, la zona d’ombra tra la vita e la morte.  Il settimo sigillo è una raffinata poesia per immagini, un’affascinante danza macabra, esempio lampante di cinema che arriva a cogliere lo spazio crepuscolare nascosto nel profondo della nostra anima.

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