di Marzia Procopio
Siccome recitare è legato a uno stato d’animo, si può diventare cattivi attori da un momento all’altro. Basta che succeda qualcosa nella nostra vita o nel nostro cervello o addirittura nel nostro sangue perché…tac, si spezza qualcosa e uno resta così, senza come un falegname che cià il martello in mano e non sa che fare, così, come se non lo avesse mai usato.

“Sette Vistìni” – così la chiamavano a casa sua perché era freddolosissima e indossava sempre diversi strati di indumenti – è morta, viva “Sette Vistinì”.

Diamante incastonato nella storia del cinema come musa dei drammi borghesi dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni, per il quale interpretò capolavori quali La notte (1961), L’eclisse (1962) e soprattutto Il deserto rosso (1964), film-manifesto dell’esistenzialismo antonioniano; unica attrice italiana in grado, per personalità, naturale eleganza e fisicità, di evocare, gareggiare ed eguagliare le bellezze anticonvenzionali e spigliate della Nouvelle Vague francese, dopo la rottura del sodalizio artistico e sentimentale con il regista ferrarese Vitti ritrovò la vis comica in una lunga serie di brillanti commedie per le quali ha ricevuto nel corso della sua carriera sei David di Donatello, tre Nastri d’argento, un Orso d’argento nel 1984 al Festival di Berlino e un Leone d’oro alla carriera nel 1995 alla Mostra internazionale del cinema di Venezia.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta, grazie al suo estro caricaturale, al fine umorismo, alla esuberanza e all’immediatezza comunicativa, arrivarono le interpretazioni, tra cui si segnalano quelle decisamente convincenti in Modesty Blaise di Joseph Losey (1966), Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce (1967), Amore mio, aiutami di Sordi (1969), Dramma della gelosia di Ettore Scola (1970) e tanti altri. Il pubblico le tributò un successo crescente, non sempre corrispondente alla qualità della sua filmografia o alla varietà delle sue interpretazioni.

La consacrazione come attrice brillante arrivò con La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, film scritto nel 1968 da Rodolfo Sonego e Luigi Magni appositamente per lei, in cui, interpretando il ruolo di una siciliana sedotta e abbandonata che insegue a Londra l’uomo che le ha tolto l’onore, Vitti non solo ottenne nel 1969 un Nastro d’argento e un David, ma soprattutto iniziò a dare voce e corpo a donne svagate, stralunate, con una recitazione che guardava al grottesco: e per questo suo stile era una novità assoluta nel panorama delle attrici italiane di allora. Da quel momento in poi, fu la sola, in un mondo tutto maschile quale quello del cinema italiano, in grado di confrontarsi da pari a pari con i grandi mattatori: Sordi, Gassman, Manfredi, Tognazzi, Mastroianni, Giannini.

Attrice versatile e sensibile, capace di entrare nel personaggio senza grandi prove, era una donna con delle fragilità che emergono dai racconti degli altri. A un pranzo a casa del fratello di Antonioni, racconta la nipote, si presentò struccata, vestita in modo elegante, ma semplice: “Era estate, si fermarono a pranzo, mia madre aveva preparato varie vivande, tra queste prosciutto e melone. Pietanza tipicamente estiva. Ricordo il piatto da portata al centro del tavolo, Monica cercò di prendere una fetta di prosciutto, ma la forchetta la tradì. La fetta cadde sulla tovaglia, mio zio con un’espressione estremamente seria, anche se in realtà stava scherzando, le disse: “Se ti comporti così non ti porto più qui, mi fai fare brutta figura”. A queste parole Monica divenne rossa e si scusò, naturalmente poi mio zio la rassicurò. Mi è sempre rimasto impresso questo viso quasi da bambina, rosso dalla vergogna.”


Simbolo, insieme a Franca Valeri, di una rivoluzione femminile possibile, dotata di una voce roca che ha reso le sue interpretazioni inconfondibili e originali, Monica Vitti è una presenza immanente nell’immaginario e nei cuori di noi tutti, l’attrice più italiana di tutte: bellissima, ironica, moderna, capace di utilizzare una gamma assai ampia di registri espressivi, ha fatto dei suoi personaggi delle persone; ruoli che non potrebbero mai più essere interpretati da nessun’altra, perché la ragazza con la pistola, Adelaide Ciafrocchi, Tosca, Teresa la ladra, sono incarnate in Monica Vitti. Amata dagli uomini per il suo magnetismo – non la perfezione delle forme pur magnifiche, ma uno sguardo profondo rivolto all’infinito, il corrugare di un sopracciglio, un movimento impercettibile dell’angolo della bocca, una promessa di mistero, senso e sensi – adorata dalle donne, che ne hanno sempre riconosciuto il potere attrattivo senza mai invidiarla perché non si può voler male a una sorella schietta, diretta, non competitiva – Monica c’è anche se non c’è, perché chiama in territori che vanno oltre la sua bellezza, perché lei è stata e sempre resterà – è la magia del cinema, questa – Bellezza Assoluta che tende la mano e conduce in territori a sconosciuti.
