La notte, di Michelangelo Antonioni (1961)

di Roberta Lamonica

Come l’ape non sa di essere ape, la rosa non sa di essere rosa, il selvaggio non sa di essere selvaggio, così i personaggi di Antonioni non sanno di essere personaggi angosciati, non si sono posti, se non attraverso la pura sensibilità, il problema dell’angoscia: soffrono di un male che non sanno cos’è. Soffrono e basta.”

(P.P. Pasolini)

La notte/ locandina/ re-movies
La notte – locandina

La notte e l’indagine sulla morte dell’amore

Vetro e metallo. Fuori, la città. Un’architettura moderna, fatta di profili di grattacieli, di rumori, di stridori, di voci sintetiche, di ascensori che si aprono e si chiudono. Rumore. Vertigine. E poi il volto di Tommaso che soffre: Tommaso, l’intellettuale dall’aspetto antico che scrive di Adorno e che sta morendo in una bella clinica milanese, circondato da ogni comfort, persino dallo champagne. “La morfina rende tutto importante”, lo rende disinibito, leggero, franco, quasi cinico con Lidia e Giovanni, la coppia di amici che gli sta facendo visita. L’urgenza della condivisione appena accennata, senza più la richiesta di risposte a domande già poste; solo la ricerca di conforto in uno sguardo, il bisogno lucido di verità, il tentativo di allontanare da sé l’alone di putrefazione, quel sentore acre di morte che si accompagna alla fine di un uomo… l’esperienza del dolore, una esperienza trasformativa nella vita di un essere umano, microcosmo monadico tanto più inaccettabile quanto più profondamente inserito in un contesto di dissonanza, disagio e disorientamento macroscopici. Nella bella clinica non sta morendo solo Tommaso ma tutto ciò che di vivente in essa si muove: la madre devastata, la giovane invasata, Lidia, Giovanni, il loro amore e tutto ciò su cui si era costruito.

Così inizia La notte, capitolo centrale della cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità, iniziata con L’avventura (1960) e seguita da L’eclisse (1962), e che valse al regista ferrarese l’Orso d’Oro a Berlino. Film dalla forma perfetta, anche grazie al montaggio strepitoso di Eraldo De Rosa e alla fotografia grandiosa di Gianni di Venanzio, La notte porta a compimento il processo di rappresentazione di una forma di alienazione sentimentale che è centrale nell’arte di Antonioni.

La notte/clinica/re-movies
Tommaso con Lidia Giovanni

Oltre all’analisi sofferta e partecipata della disgregazione del rapporto tra esseri umani all’interno di una società sempre più superficiale e vuota, Michelangelo Antonioni qui insiste sull’analisi dell’incomunicabilità della coppia, di quella naturale inclinazione di un individuo a stare insieme, a trovare supporto nell’altro. Film del silenzio – quello che grida e che riempie di sé ogni fotogramma – La notte, scritto con Ennio Flaiano e Tonino Guerra, è pervaso da un pessimismo angoscioso, da un senso di disperazione quasi tangibile, affidato a immagini che stupiscono più delle parole, più della storia che raccontano e che non offrono risposte ai grandi temi che si propone di indagare. Ne La notte, Antonioni sembra rinunciare flaubertianamente a un intervento diretto nei fatti che ‘narra’ e si limita ad osservare con distacco una giornata qualunque che diventa centrale nella coscienza dei protagonisti, membri di quella borghesia cui gravita intorno ‘come un satellite al suo pianeta’. Non eroi ma ‘elle’ et ‘lui’, figure universali, statuine segnatempo di un dato momento storico – culturale. Una galleria di sonnambuli, i personaggi de La notte, di marionette, automi, morti: esseri senza qualità nell’accezione di Musil.

Mai forse come ne La Notte il regista ha raggiunto risultati tanto completi nella visualizzazione degli stati d’animo, nella traduzione in immagini cinematografiche di atteggiamenti e sentimenti in modo così rigoroso e obbiettivo.

La notte/ Jeanne Moreau/ re-movies
Giovanni e Lidia

La notte, tra disperazione e nuove consapevolezze

La trama è scarna, senza eroi dunque, senza guizzi, senza una reale soluzione alle premesse. Una coppia, Giovanni Pontano e sua moglie Lidia, visita l’amico morente in ospedale. In seguito i due vanno alla presentazione de La stagione, il romanzo scritto da Giovanni, organizzata dall’editore; quindi Lidia vaga per la periferia milanese, Giovanni la raggiunge e tornano a casa, salvo poi decidere di uscire e andare a un tabarin. Ma anche lì un senso di irrequietezza e di vuoto li spinge a voler fare altro e si recano a una festa nella villa brianzola di un industriale con cui Giovanni ha progetti di lavoro. Durante la festa, entrambi vengono tentati da altre persone, in particolare Giovanni si avvicina a Valentina (Monica Vitti), e all’alba del giorno seguente ci sarà una ‘resa dei conti’ sulla base della nuova dolorosa ma immutabile consapevolezza di Lidia.

La notte di Lidia e Giovanni, Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni, i protagonisti della pellicola, è iniziata molto prima di quella che dà il titolo al film, molto prima de LA notte in cui tutto diventa chiaro, scoperto, a tratti anche volgare, prima che un’alba opalescente e brumosa ingoi nuovamente verità e dolore nel suo abbraccio immateriale e mortifero.

Nel suo commento al film di Antonioni, Pasolini scrive che il maestro ferrarese “non ci fa capire, o supporre, o intuire in alcun modo di essere diverso dai suoi personaggi: come i suoi personaggi si limitano a soffrire l’angoscia senza sapere cos’è, così Antonioni si limita a descrivere l’angoscia senza sapere cos’è”.

E l’ennui, la mancanza di senso e la sua ricerca affannosa, l’angoscia soprattutto da parte di Lidia, sono la cifra di questo film ‘letterario’, in cui Antonioni si prende il tempo di indugiare in momenti di solitudine, distanza, vuoto, paura, vertigine usando la macchina da presa come pagine di un romanzo modernista in cui i pensieri di un protagonista danzano lievi attraverso la narrazione e possono occupare lo spazio di una riga, di una pagina, di un capitolo o dell’intero libro.

Architetture urbane, gabbie e crisi del personaggio nei film di Antonioni

Che devo fare?”, supplica disperato Tommaso dal suo letto di morte, intrappolato nell’illusorio agio di una clinica privata. “Io devo andare”, sussurra Lidia prima di salutarlo e uscire dalla clinica.

Fin dalle prime battute del film si respira un’aria di ingabbiamento delle emozioni che si esplicita nel bisogno di ‘evadere’ dai luoghi fisici in cui si muovono i personaggi. Dietro le grate è la vicina con cui Giovanni parla dal balcone, in gabbia gli uccellini dietro di lei. Dietro le serrande di un negozio era inquadrata Vittoria ne L’Eclisse, dentro finestre Claudia ne L’avventura.
I luoghi di una modernità che fagocita e si impone come le auto inquadrate dal basso in primo piano sui personaggi, rendendoli lillipuziani, o come i grandi edifici ridotti a modellini dalla prospettiva dall’alto all’inizio del film.

L’architettura domina i protagonisti di quasi tutti i film di Antonioni, che sia quella barocca de L’avventura o quella urbana de La notte, rendendoli dunque insignificanti tra quelle strutture enormi, con linee orizzontali che separano i personaggi sottolineando la loro distanza e mancanza di connessione emotiva.
Claudia, Lidia, Vittoria e Giuliana, le protagoniste dei film sull’alienazione e l’incomunicabilità sono spesso catturate in cornici, perse nel labirinto della loro quotidianità, mentre cercano di trovare se stesse e una nuova dimensione alla loro vita.
Per sfuggire a queste prigionie spesso guardano fuori, verso l’orizzonte. Ne La notte, Lidia guarda fuori dalla finestra dell’ospedale e, come colta da un’improvvisa agnizione, deve fuggire.

Ma anche i personaggi maschili di Antonioni non sfuggono a questo senso di ingabbiamento che li costringe e ne determina angoscia e insoddisfazione. Sandro, Giovanni, Aldo, protagonisti dei ‘romanzi’ della crisi, sono figure ancora più dolorose perché incapaci, più dei personaggi femminili, di comprendere il significato del loro profondo malessere. Nella sua moderna casa in penombra, con una libreria troppo ordinata, una natura morta alle spalle, un giradischi che suona una lezione nella nuova lingua veicolare della nuova economia, Giovanni è ingabbiato nel suo ruolo di intellettuale prezzolato. “Ogni miliardario ha bisogno di un intellettuale. Lui avrà scelto te”, gli dice Lidia in una scena del film, sottolineando una volta di più la loro disconnessione emotiva e la mancanza di empatia fra loro.

Lidia e la sua flânerie

Antonioni non guarda mai alla modernità come la dimensione da opporre a un’ Arcadia lirica. Egli trova interessanti, piuttosto, le forme architettoniche moderne, la loro razionale e fredda geometria, la loro spiazzante presenza come indicatore della disconnessione e dello straniamento fra gli esseri umani. Lidia si muove meglio tra quegli ambienti quando l’elemento umano è assente, quando può non confrontarsi con la menzogna delle relazioni interpersonali. Alla presentazione del libro, fa un’ulteriore esperienza del cedimento strutturale del suo matrimonio, rispetto alla solidità degli edifici cittadini moderni. Una foto di Giovanni su un’edizione economica con copertina flessibile del suo romanzo, dal titolo cosi decadente e ruffiano e torna la voglia di scappare…Sola, mentre una coppia giovane e felice entra nell’edificio.

Da qui inizia la flânerie di Lidia nelle strade della città: il suo corpo esile si specchia in finestre lustre che restituiscono il riflesso di un’identità smarrita. Una vecchia che mangia un gelato e periferie urbane solitarie che si stagliano su sfondi scuri. Si muove a caso Lidia, in quelle periferie un cui cerca di recuperare pezzi di passato e di felicità.

Una scena della lunga passeggiata di Lidia

Un cantiere teatro di litigio fra maschi giovani e ruspanti. Una violenza che si esplicita come predazione sessuale, come conflitto fisico, come violazione. Tutto è violato: le periferie da cantieri, l’aria da razzi che puntano al nulla, i sentimenti dall’aridità della noia. E lei è sempre distaccata rispetto a ciò che appassiona gli altri, disperata di trovare un senso, mentre il fumo di quei razzi puntati verso il nulla ingoia cose e persone. E allora Lidia si immerge nelle rovine di strade laterali, dove povertà e miseria piangono come un bambino, dove il tempo è fermo su un vecchio orologio, dove i cartelloni pubblicitari sembrano grotteschi pezzi d’antiquariato e la ruggine copre tutto: passare una mano bianca e scrostare vecchie pareti come per togliere la patina di apatia e torpore dalla propria vita. Virginia Woolf lo chiamava ‘street haunting’ in un saggio con quel nome: “navigando in una sera d’inverno, circondati dalla brillantezza di champagne dell’aria e dalla socialità delle strade”, lasciamo a casa le cose che ci definiscono, per diventare parte di quel vasto esercito repubblicano di anonimi vagabondi”. Man mano che Lidia avanza nel paesaggio urbano, inizia non solo a reagire ma a interagire con esso, trovando nuove consapevolezze e punti di riferimento interiori. Attraverso la passeggiata di Lidia, Antonioni svela l’insoddisfazione, l’amarezza, l’usura dei sentimenti, la violenza silenziosa della consuetudine e la silenziosa protagonista compie un doloroso ma tenace percorso di demistificazione e di scavo su sentimenti e idee.

Jeanne Moreau


Nel corso di quel solitario vagabondare, che è uno smarrirsi ed un ritrovarsi continuo della coscienza, Lidia vede se stessa, le sue speranze di un tempo e le sue disillusioni di oggi. Il paesaggio, frantumato in una sequenza di immagini ferme e distaccate, acquista qui la dimensione soggettiva della meditazione interna del personaggio”. E nel suo graduale ritrovarsi Lidia realizza che con Giovanni condivide ormai solo una manciata di conversazioni senza senso, parole vuote in cui non c’è più stima né un’intimità. Lidia sente la necessità di fargli ripercorrere strade già fatte, storie già vissute. Il binario del treno abbandonato è la metafora della loro storia. La passeggiata lungo quei binari simboleggia la fine del loro amore.

E’ solo dopo il vagabondare urbano di Lidia, che ha inizio la lunga notte che dà il titolo al film.

La notte, una notte… infinita.

Smaniosa di non restare a casa con l’odore di morte ancora nelle narici, Lidia vuole uscire ‘sola’ con Giovanni. Si recano a un tabarin dove però la sensazione di disagio ed estraneità aumenta; mentre guardano lo spettacolo sensuale di due ballerini africani dal corpo flessuoso e dalle movenze eroticamente cariche, aumenta un senso di mancanza di eccitazione e di impotenza nella coppia. “Non ho pensieri ma ne sto aspettando uno, lo sento venire”, dice Lidia e il pensiero è lì e aspetta solo un’alba lattiginosa per essere espresso. E quindi la festa alla villa dell’industriale Gherardini sembra essere perfetta per continuare a stordirsi, a ritardare il confronto.

La festa e l’effimero entusiasmo di Lidia

L’indagine antonioniana si sposta dunque alla crisi alla società. Interessato come Fellini, all’analisi dei ceti medi che con l’avvento della società dei consumi vedeva essere sempre più svuotati di qualità e senso, Antonioni apre la sezione finale del suo film con una villa – dove si suppone ci sia una festa – apparentemente disabitata. “Sono morti tutti qui! Speriamo”, dice Lidia all’arrivo in Brianza.

E invece la festa c’è, ma sul retro dove tutta la superficialità di tronfi ceti medi arricchiti può esprimersi senza che il ‘mondo’ la veda: api inconsapevoli si accalcano intorno a un fantino e al suo cavallo per un plauso di circostanza; giovani donne accompagnate e poi abbandonate da vecchi magnati; buffet con candelabri d’argento e grosse porchette arrostite; padrone di casa vivaci e spiritose. La musica strepitosa di Giorgio Gaslini (scelto dopo un incontro con Mastroianni organizzato da Nicola Arigliano), parte integrante del film, anima vibrante e drammaturgica fino alla fine, sottolinea il movimento a vuoto di corpi, la vacuità di inutili parole. E’ qui che si compie l’atto finale del percorso di auto analisi di Lidia, che passerà attraverso la tentazione di un tradimento sotto una pioggia torrenziale che rende tutto indistinto e attraverso l’incontro con una rivale, più giovane e bella, a cui è pronta a passare il testimone e con cui lei sola riuscirà ad entrare in qualche modo in contatto.

Valentina (Monica Vitti)

Valentina e l’accettazione del fallimento come dimensione esistenziale

In questo scenario, un libro, tra le grate di un balcone, I sonnambuli di Broch. Giovanni è colpito da quel libro e vuole dare un’identità, un volto al suo lettore. I sonnambuli…Sonnambuli gli ospiti della villa, i padroni di casa e Lidia e Giovanni ma non Valentina, la figlia ventiduenne di Gherardini. Al chiasso della villa preferisce il silenzio di scale appartate e stanze isolate. Una scena rende in tutta la sua potenza il clima disperato e fatuo, il senso di inutilità, la noia di quel mondo: Valentina, seduta sul pavimento fa un giochino che consiste nel far scivolare il suo portacipria avanti e indietro sulla scacchiera del pavimento, cercando di farlo andare il più lontano possibile all’interno del quadrato. Altra gabbia, altri limiti. Giovanni si unisce a lei, condividendo la sua noia. In tutta la sua grandezza, La dolce vita non riesce a cogliere la noia che attanaglia i ricchi come questa scena. Il cinismo di Valentina, lucida nella percezione del fallimento, consapevole e dunque meritevole di una possibilità, di una speranza per il futuro, si esplicita quando dice a Giovanni, dopo aver perso la pietra preziosa sul suo portacipria “Non mi importa. Tanto era un rubino vero”. “Si diverte molto a fare la cinica?” “No”; o quando cancella i suoi pensieri registrati su un registratore, consapevole dell’impermanenza degli stessi. Cancellare e cancellarsi diventa dunque un atto di ribellione e per Valentina, una possibilità di scrivere e riscrivere il suo futuro.

La notte/ Antonioni/ re-movies
Una delle splendide inquadrature di Michelangelo Antonioni


Artista in crisi, membro di quell’élite intellettuale che ha smarrito la propria dimensione e missione sociale, Giovanni Pontano vive della luce accesa su di lui da chi non stima e dal cui apprezzamento non si sente lusingato. “Io non ho più idee… ho soltanto memoria”, dice a Gherardini, lasciando intuire la crisi artistica da cui è attanagliato. Giovanni sa che l’artista vero è altrove, nel letto di una clinica, inquadrato di fronte, perché non ha voltato le spalle alla sua missione, perché non ha tradito se stesso con un ‘romanzetto’ medio che si adatti ai gusti di una borghesia crassa e ignorante. Giovanni sente l’irreversibilità della sua condizione di figura di sistema e non riesce a reagire se non con cinismo e disimpegno. E questo cinismo, lo stesso disimpegno gli hanno alienato l’amore di Lidia.

L’alba di un nuovo, vecchio giorno

L’alba

E per questo che i tentativi di dare a quella notte un valore palingenetico falliscono all’alba di un nuovo, vecchio giorno. L’orizzonte è indistinto, le tentazioni non colte, il cambiamento troppo duro. Ma Lidia è lì, con una lettera d’amore che Giovanni non riconosce come propria, su un campo da golf, prodotto artificiale, segno di una natura finta come il loro tentativo di riconciliazione. Non ci sarà un nuovo inizio e il disperato tentativo da parte di Giovanni di possedere Lidia ha il sapore di una regressione a uno stadio primitivo e prerazionale che risulta arido e brullo come il pezzo di prato su cui avviene. Una riduzione della realtà a un punto in cui l’immagine si sgrana e diventa astratta, proprio come nel parco di Blow up.
L’alba di Antonioni (e non a caso L’avventura e La notte così come La dolce vita si concludono all’alba), è un amaro guardarsi per ciò che si è, incapaci di capirsi e di amarsi, insoddisfatti, malati di noia, vinti dall’abitudine, animati da sentimenti instabili. “Non c’era gelosia in quello che ti ho detto prima. Neanche un po’”. “Il guaio è tutto lì”. “Se stasera sono disperata è perché non ti amo più”.

La vuota rassegnazione di Giovanni e Lidia

Non lo ama più, Lidia, eppure si fa travolgere da quell’abbraccio vuoto e cede al bisogno di Giovanni di trovare senso alla propria esistenza. Una ripetuta perdizione dunque, un segno ulteriore di un incontrovertibile smarrimento interiore, dove il tentativo reattivo della sessualità assume i caratteri di un binario morto, e Lidia e Giovanni si arrendono, senza riuscire a decifrare, o trovare una soluzione. I sentimenti, nei film di Antonioni, diventano terreno di gioco di una partita a golf, o a tennis, con giocatori senza anima, che sostituiscono alla verità dell’amore forme surrogate e sempre più astratte di interazione.



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