Margin call, di J. C. Chandor (2011)

di Venceslav Soroczynski

Locandina

Non guardate il trailer di questo film, vi darebbe l’impressione sbagliata di un The Wolf of Wall Street, solo più serio. E, invece, non è così. È un magistrale abbozzo – forse un ritratto intimo – del sistema di relazioni umane all’interno dei grossi gruppi finanziari e, probabilmente, delle grandi società in generale. Una piramide di potere e mansioni in cui più si va verso il vertice, più si trovano scorrettezza, cinismo, incompetenza.

Ci sono gli operatori di livello più basso che, con le mani sulla tastiera e gli occhi al monitor, fanno il lavoro più pesante, lo fanno onestamente e fino a tarda sera. Questi ragazzi hanno un capo e, quando c’è qualcosa di importante da discutere, bussano alla sua porta. Appena lo vedete, vi sembrerà un vero boss, serio, elegante, un punto di riferimento. Ma se il problema è grosso, questo capo deve chiamare il suo suo superiore, uno ancora più serio, più anziano, che sta in un ufficio da cui si vede tutta la città. Questa volta, la faccenda è serissima, quindi il boss dell’ultimo piano si mette in allarme e corre dal suo, di capo, che sveglia di notte l’ufficio legale e chiama uno che sta ancora più sopra di lui. Sempre più in alto. Finché il capo vero – ovviamente un figlio di puttana ignorante, scorretto, praticamente un truffatore dotato di un sistema morale di giustificazioni inconsistenti – arriva in elicottero.

Che succede? È un disastro, gli asset non valgono più nulla, si deve vendere o sparire. Forse, tutte e due le cose. E si deve anche licenziare. La prima a essere fatta fuori è proprio la persona che aveva trovato il buco nell’equazione matematica su cui si regge tutta la strategia aziendale. Se sollevi il problema, sei il problema, diceva qualcuno. Fatto fuori lui, nessuno capisce davvero di cosa si stia parlando e come uscirne senza rovinarsi. Dopo qualche ora, gli analisti più giovani e meno pagati comprendono il significato di quei numeri, mentre i capi non sanno nemmeno interpretare i dati sul monitor. Però sono questi ultimi a prendere le decisioni, a rovinare migliaia di persone facendo una telefonata.

In una notte in cui nessuno riesce può dormire, il film disegna un ambiente, un settore, un modo di pensare e di vivere. Tutti guadagnano molto e ognuno vuole sapere quanto guadagna chi è più in alto di lui. Si parla solo di denaro, si invidiano solo i soldi, si misura tutto in dollari. Si ricatta in dollari, si licenzia in dollari, si riassume in dollari.

Intanto, ora dopo ora, lo spaventoso buco di allarga. Ma questa volta lo vediamo dall’alto, visto che questa pellicola non rappresenta il dramma collettivo del crollo, bensì quello individuale, dal punto di vista del truffatore. Che mostra una resistenza iniziale, dovuta all’emergere di uno scrupolo etico, poi più nulla: si vende, si liquida, si sparisce. Come dire si ruba. Come dire ti vendo un chilo di niente a un milione di dollari. E so che lo sto facendo. Il secondo mestiere più vecchio del mondo.

Emerge immediatamente la spietatezza della proprietà, la superficialità dei motivatori, il disinteresse della direzione, la disonestà degli amministratori – no, ragazzi, non è un film sull’Italia, non distraetevi, stiamo ancora parlando di Wall Street. Insomma, appena il Presidente si accorge di avere le tasche piene di merda, cerca di rivoltarle addosso a qualcun altro. Al mondo intero. Gli serve un capro espiatorio pubblico e, senza alcuno scrupolo, lo sceglie fra i suoi dipendenti.

Se coltivate la speranza che c’è qualcuno, in ditta, che ha una coscienza, non illudetevi. Non è così e non lo è nemmeno nella realtà. Nella realtà, se ti serve lo stipendio per sopravvivere, la coscienza si restringe per far posto allo stomaco, al mutuo, all’ex-moglie. Adesso ditemi a chi non serve lo stipendio per sopravvivere.

La sceneggiatura sa creare una freddissima ma efficace suspense. Il contrasto cromatico, i chiaroscuri negli abiti, il buio negli uffici, la colonna sonora – quasi un bordone – sa allestire quel clima che ben rappresenta la insanabile distanza fra chi detiene l’informazione e chi legge il giornale. Capirlo non è difficile. Ascoltate bene il colloquio davanti al monitor a inizio film e le telefonate dalla sala contrattazioni alla fine del film. È spiegato tutto bene, è tutto facile. Come morire.

Ecco, sappiate che così va il mondo. Che siamo vivi per un colpo di culo, che mangiamo per miracolo, che siamo nati nel posto giusto, anche se riteniamo il nostro paese profondamente iniquo. E, a proposito di giusto o non giusto, il ragazzo che ha scoperto la falla a un certo punto domanda: “E’ sicuro che sia la cosa giusta da fare?”. E il capo che deve prendere la decisione difficile risponde: “Per chi?”

Il film – la questione – è tutta qui.

Kevin Spacey

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