Marx può aspettare, di Marco Bellocchio (2021)

di Ulderico Pomarici

Questo film-documentario è un colpo al cuore. Vedere un regista affermato come Marco Bellocchio che, superati gli 80 anni, mette a nudo i propri sentimenti, in modo quasi spudorato, è cosa rara. Un viaggio a ritroso nel tempo, che è anche un viaggio nel proprio spazio interiore. Il regista avverte la necessità, profonda, di parresia intorno alla propria vita, intorno alla famiglia e, innanzitutto, di verità intorno al rapporto che lo lega al fratello gemello Camillo, morto suicida a 29 anni nel lontano 1968. Perché non abbiamo compreso, ma soprattutto: perché io non ho compreso che Camillo stava per suicidarsi?

Tentare, insomma, con questo film di contattare – sia pure solo nell’artificio della celluloide – la propria freddezza emotiva e il dolore per questa freddezza che lui stesso non prova ma che filtra dalle immagini dei suoi film e ci giunge in modo chiaro e forte. Tentare quindi di dare forma compiuta a un’ossessione che si dipana lungo tutta la vita d’artista e farci i conti: l’ossessione della famiglia, che ha pervaso tutto il suo cinema: da I pugni in tasca del 1969 che gli dà la notorietà, e poi Gli occhi la bocca (1982), Il sogno della farfalla (1994), L’ora di religione (2002), Sorelle mai (2010), fino a Sangue del mio sangue (2015). Documentario-film quasi interamente in b/n, ma anche film di film: inchiesta, corredata da foto di famiglia e spezzoni di pellicole domestiche e amatoriali a colori, in cui si vede Camillo in viaggio o con gli amiciin filmati di repertorio e, qua e là, scene tratte da altri film di Marco– Gli occhi la bocca e L’ora di religione – che testimoniano come lui abbia tentato di elaborare per tutta la vita il gesto estremo del fratello gemello.

E, forse, elaborare il fallimento di questo tentativo. Fallimento inscritto nel suo restare sempre presso l’ossessione della famiglia, per quanto lontano potesse andare. Per quanto successo potesse avere. Perché è la famiglia a dominare ovunque nei suoi film. Famiglia nella quale la madre, custode di una religiosità veterotestamentaria, assume agli occhi dei tre figli maschi un ruolo dominante, opprimente, al quale loro contrappongono l’impegno nell’ideologia comunista. Una storia profondamente italiana nel cuore dell’Emilia.

Dunque non è certo strano che nella scena iniziale di questo suo ultimo film si veda la famiglia Bellocchio ‘dal vero’, riunita attorno a una tavola imbandita per un film che prende forma attraverso le interviste di Marco ai familiari. Intorno alla lunga tavola tutti coloro che sono rimasti: fra i quali, innanzitutto, i tre fratelli – Marco, Piergiorgio (direttore di Quaderni Piacentini, una rivista molto importante nel dibattito culturale e politico degli anni ’70), Alberto, sindacalista – e le due sorelle (Maria Luisa e la vivacissima Letizia, sordomuta). Altri tre sono scomparsi prematuramente, Tonino, Paolo (affetto da gravi disturbi mentali, viveva in casa con grave disagio per la vita familiare) e Camillo. È proprio quest’ultimo, morto suicida a 29 anni nel 1968 e fratello gemello di Marco, l’autentico protagonista del film.

Camillo diverge profondamente dagli altri fratelli, tutti ‘in carriera’ sul piano intellettuale. Lui è timido, insicuro, anche se di natura allegra e socievole, va in giro a divertirsi con gli amici ma già dalla scuola mostra grandi difficoltà di affermazione, acuitesi nella ricerca affannosa di un posto di lavoro. Camillo, a differenza dei fratelli – animati dal ‘fuoco’ dell’ideologia comunista – non sembra infatti rivelare passioni, non sa cosa fare nella vita, della vita. E crescendo, aumenta il divario nella vita pubblica con i tre fratelli che variamente si affermano nella vita mentre lui resta indietro: eppure la sua anima tormentata patisce, mostra una paradossale ricerca di vitalità a differenza dei fratelli bloccati nelle loro ideologiche certezze.

Marco, in particolare, è del tutto assorbito dal suo lavoro e dal suo ruolo. E saranno i fratelli a ricordare a Marco la lettera che Camillo gli aveva scritto quando, disperato per l’incapacità di trovare una propria strada, gli chiede aiuto per inserirlo in qualche modo nel mondo cinema. Lui quella richiesta di aiuto, quella lettera, ammette di averla del tutto dimenticata. Forse non gli aveva neppure risposto. E testimonia questa sua assenza emotiva in una scena molto intensa, leggendone alcune righe nella penombra della palestra dove Camillo si è tolto la vita.

Ormai quella lettura può solo ricordare… Riaffiora così quella incapacità di amare con la quale ha cercato invano di lottare per tutta la vita proiettandola – è il caso di dire – attraverso i suoi film: come se l’intelletto, la conoscenza, la ragione fossero nemici di ogni ‘educazione sentimentale’. Di qui il distacco dalla famiglia, di qui il non porgere la mano al fratello gemello che chiedeva aiuto, di qui l’ergersi in una turris eburnea fatta di chilometri di pellicola e al tempo stesso lottare contro tutto questo proprio dentro i suoi film!“A livello degli affetti c’era il deserto, ognuno pensava a sé stesso”, riconoscerà Marco ripercorrendo quegli anni ‘familiari’.

Ne Gli occhi la bocca (con Michel Piccoli e Lou Castel) ritorna quella frase che dà il titolo al film: “Marx può aspettare”, la risposta di Camillo a Marco che sigilla il fallimento del loro rapporto. Infatti, di fronte al tormento esistenziale di Camillo, Marco non sa far di meglio che “sparare quattro cazzate” (come lui stesso, ricorda e ammette nel film) pescando nel bagaglio delle ovvietà rivoluzionarie e invitandolo ad abbracciare la causa del popolo per sciogliere i propri tormenti esistenziali. E Camillo, molto più consapevole di Marco, gli ribatte seccamente: “Marx può aspettare”.  E forse non è un caso che sia un padre gesuita, amico di famiglia, a definire il lavoro di Marco una lunga confessione che si dipana attraverso i suoi film, così che lo schermo cinematografico diventa la grata del confessionale al quale Marco affida una lunga e amara riflessione sui propri fallimenti emotivi.

Il giorno del suicidio i fratelli sono lontani: Alberto in viaggio di piacere a Parigi, Piergiorgio a Milano e Marco a Roma. Significativo della lontananza dalla vita di Camillo è che tutti e tre i fratelli, prima di apprendere la natura della sua morte, pensino a un incidente automobilistico, magari provocato proprio da lui. Né quindi è un caso che siano quattro donne a trovare il corpo di Camillo senza vita nella palestra: le due sorelle Maria Grazia e Letizia, la cognata e la madre che vedendo il figlio esanime si strappa i vestiti di dosso e urla: «io non muoio!».

Letizia, la sorella sordomuta, vede Camillo pendere a una corda e corre a prendere un coltello per reciderla. I suoi piedi erano a pochi centimetri dal pavimento, racconta. Lei, ancora dopo cinquant’anni, non vuole credere che Camillo si sia suicidato. Vuole continuare a pensare a un incidente o a un gioco finito tragicamente. E la cognata, abbracciando il corpo che si rivela già rigido e freddo, lo sorregge e lo depone sopra una panca. La sua narrazione ha l’intensità pittorica di una Deposizione.

Una sola è l’autentica scena di finzione, la conclusiva: nell’ultima inquadratura Marco cammina lentamente verso la macchina da presa mentre all’improvviso appare la figura di un giovane, inquadrato di spalle, con una tuta sulla quale si legge ISEF (l’istituto nel quale alla fine Camillo aveva trovato un impiego), che corre con passo spedito in direzione contraria quasi come in una scena di Buňuel…un sogno che mette i due fratelli l’uno accanto all’altro per l’ultima volta, sia pure su strade parallele non destinate a incontrarsi. Incrociandolo, Marco, nel solco scavato dagli anni e da quella fine che rende ogni abbraccio impossibile, si ferma mestamente a osservare quel giovane atleta, quel fantasma di Camillo, che corre finalmente deciso verso Bobbio, ritornando alla casa natale.

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