di Simone Lorenzati

“Non hai alcuna idea di cosa vuol dire essere un nero e dover affrontare l’America. Le uniche volte in cui un nero è in salvo, è quando l’uomo bianco è disarmato.” Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson)
The hateful eight è l’ottavo film di Quentin Tarantino e al tempo si aggiudicò sia il Golden Globe sia l’Oscar per la migliore colonna sonora, grazie alle spettacolari musiche scritte dal nostro Ennio Morricone. Rappresenta l’ideale seguito del precedente Django unchained, film che era ambientato prima della Guerra Civile di Secessione.

Qui, invece, il conflitto bellico è ormai terminato, lasciando tuttavia evidenti segni sui e nei protagonisti dell’opera tarantiniana. L’opera è stata girata in 70mm con la fotografia, notevolissima, di Robert Richardson. Il film è decisamente intenso e, cosa tipica del regista italo-americano, curato in ogni minimo dettaglio. Insomma anche qui Tarantino emerge nuovamente con il suo inconfondibile stile, uno stile fatto di originalità insieme a citazioni altrui, con riferimenti a star movie mischiati ad (apparenti) b movie.

E’, infatti, un crossover di generi cinematografici questa pellicola, non essendo per nulla classificabile: western, thriller, giallo, horror a tinte splatter, con evidenti richiami agli amatissimi John Ford e Sergio Leone. Ma sarebbe riduttivo limitarsi alla divisione di genere nel caso specifico. Si pensi, ad esempio, al fatto che le tre ore del film sono ambientate unicamente in una carrozza e, per il novantacinque per cento del tempo, in una locanda (l’emporio di Minnie).

Durante il rigido inverno del Wyming si intrecciano le strade del cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russel), che sta portando a Red Rock la criminale Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), e del Maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson). Lungo il tragitto per Red Rocks si unirà al trio anche Chris Mannix (Walton Goggins), futuro sceriffo della cittadina. La diligenza nella quale i quattro viaggiano è costretta a fermarsi proprio all’emporio di Minnie, a causa di una violenta bufera di neve. All’interno vi troveranno il messicano Bob (Démian Bichir), il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth), il cow-boy Joe Gage (Michael Madsen) ed il generale Sanford Smithers (Bruce Dern). Otto uomini impenetrabili che si riparano da una tempesta di neve in uno chalet di montagna, uno scenario adatto per una storia ricca di tensione e di mistero.

L’odio fa da sottofondo all’opera, in questo riprendendo senza dubbio sia Pulp Fiction sia Bastardi senza gloria. Quello che fa Tarantino è, in sostanza, incorniciare un’epoca, la quale assomiglia in tanti aspetti a quella contemporanea, fino ad esaltarne tutta la sua essenza e la sua crudeltà.

Ed è in primis il dialogo, più ancora delle reali azioni dei protagonisti, il filo conduttore di The hateful eight. In ciò la bravura di Kurt Russell, Samuel L. Jackson, della fantastica Jennifer Jason Leigh, di un sorprendente Walton Goggins – insieme alla solita certezza Tim Roth – indubbiamente aiutano.

Si viene così investiti di parole, travolti da discorsi dai profondi valori politici, trasportati in monologhi sulla schiavitù assistendo ad aspre polemiche razziali, senza dimenticare gli inganni e la ricerca del guadagno personale. Nel fare questo, ovviamente, non viene mai meno la proverbiale e tagliente ironia del regista: un’allegoria western del mondo moderno a ben guardare.

Ma è un monologo sulla giustizia a far emergere un Tarantino inedito, profondamente politico, attento ed intelligente. A parlare, diretto dal regista, è il personaggio di Oswaldo Mobray, come detto interpretato da Tim Roth: “Sei accusata di omicidio” dice Mobray a Daisy. “Mettiamo che l’accusa sia fondata e che a Red Rock alla fine del processo ti dichiarino colpevole. Bene, a quel punto arrivo io e ti impicco. Se tutte queste cose accadono insieme, questa è quella che la società civilizzata chiama giustizia. Ora, se invece i parenti delle persone che hai ucciso fossero fuori da questa porta e, dopo averla buttata giù, ti trascinassero fuori nella neve e ti tirassero il collo. Bene, quella sarebbe giustizia sommaria. La parte buona è che la giustizia sommaria placa la rabbia, la parte cattiva è che non c’entra nulla con il giusto o lo sbagliato”. E poi continua “Ma alla fine qual è la vera differenza tra le due? La vera differenza sono io, il boia. A me non importa cosa hai fatto. Quando ti impicco, non avrò nessuna soddisfazione dalla tua morte. È il mio lavoro. Ti impicco a Red Rock, poi vado nella prossima città e impicco qualcun altro. L’uomo che tira la leva che ti spezzerà il collo sarà un uomo distaccato. Ed è quel distacco la vera essenza della giustizia. Perché la giustizia comminata senza distacco, corre sempre il rischio di non essere giustizia”.

Un grande, moderno e intenso monologo, con tratti di garantismo persino, assolutamente inimmaginabili per l’epoca. E questo è solamente uno dei tanti motivi per cui vale davvero la pena di vedere The hateful eight.
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