Di Roberta Lamonica
(Andrej Tarkovskij)
“La nostra principale istanza riguardava il ruolo dell’artista nella società. Volevamo che lo spettatore lasciasse il film con l’idea che l’artista è la coscienza della società in qualità di suo organo più sensibile e più percettivo a ciò che accade intorno ad esso. Un grande artista è capace di fare capolavori perché è capace di vedere gli altri più chiaramente e di percepire il mondo con gioia o dolore straordinari. Per noi Rublev era un tale artista”.

PREMESSA
Finanziato da Mosfilm, il principale studio cinematografico sovietico, una versione ripetutamente rimaneggiata dell’Andrej Rublev venne presentata al Festival di Cannes del 1969.
Andrej Tarkovskij disse che l’idea del film era stata essenzialmente del suo co-sceneggiatore Andrej Konchalovskij e dell’attore cinematografico Vasily Livanov. Alla fine, invece di Livanov Tarkovskij scelse Anatoly Solonitsyn per il ruolo del protagonista perché per lui, oltre alla somiglianza fisica, l’interprete di Rublev “doveva essere un uomo mai visto prima in un film”, così che il pubblico accogliesse la sua storia con uno sguardo non condizionato dalla grandezza della leggendaria figura nell’immaginario popolare. La censura si abbatté pesantemente sul film del maestro russo. In un periodo storico in cui in URSS non esisteva pressoché alcuna libertà artistica, la religione era di certo uno dei temi da non affrontare e l’idea di fondo del film, e cioè che la creatività e la fede dell’artista siano inestricabili, l’una manifestazione tangibile dell’altra, era ancor più improponibile.

Pochissimo si sa della figura che dà il titolo a questa complessa e stratificata opera di Andrej Tarkovskij, l’Andrej Rublev monaco e pittore di icone, vissuto nel XV secolo al tempo delle invasioni tartare, dei dissidi religiosi e del forte dissenso interno tra chiesa ortodossa, potere secolare e la gente comune. Rublev fu artista immenso che cercò nell’arte LA soluzione alle discordie che squassavano il suo mondo e la sua terra. L’icona più famosa di Rublev, la Trinità dell’Antico Testamento, protagonista dell’epilogo del film, rappresenta per Tarkovskij quella soluzione. Scelte tecniche e formali rigorose – espressione compiuta dell’esperienza artistica e religiosa che raccontano – fanno di questo secondo lungometraggio di Andrej Tarkovskij un fulgido esempio di quel cinema che Paul Schrader definisce ‘trascendente’ e in quanto tale tendente all’ineffabile e all’invisibile; cinema poetico in cui l’immagine funge da metafora suggestiva piuttosto che da simbolo che rimanda ad altro da sé.
Diviso in otto episodi, più un prologo e un epilogo, il protagonista, Andrej Rublev, attraversa il film e la Storia del suo paese da osservatore analitico e introspettivo, a volte come protagonista, altre volte come parte di un coro eppure sempre, in qualche modo, fulcro della storia, La sua centralità è sottolineata dalla stessa composizione estetica delle scene; i volti sono spesso posizionati centralmente e frontalmente, come nelle icone, nella cui realizzazione artistica Andrej eccelle.
“Immagine di pura fissazione” – sottolinea Angela Dalle Vacche nel suo libro, Cinema and Painting – “l’icona serviva come forma umana della divinità e l’osservatore può relazionarsi alla rappresentazione come se fosse il rappresentato stesso, all’immagine di Dio come a Dio”.

ANDREJ RUBLEV E LA SINTESI TRA ARTE E FEDE
Il paesaggio russo medievale – come nei dipinti di Brueghel il Vecchio a cui Tarkovskij sembra spesso ispirarsi – è fotografato in modo sublime nell’Andrej Rublev: le sue nevi, le sue paludi, le foreste e le piogge torrenziali. Gli esseri viventi – alberi e animali – hanno una ruolo fondamentale in questo film: cavalli liberi che fanno capolino attraverso aperture o che corrono in pianure sconfinate; serpenti che strisciano in corsi d’acqua, cani e gatti che occupano gli stessi spazi dei personaggi e ne condividono il destino di miseria e infelicità. La loro presenza quasi sempre anticipa o spiega i comportamenti degli umani, quasi come se le parole non fossero in grado di esprimere e spiegare la complessità degli eventi che le immagini mostrano. Attraverso le immagini lo spettatore vive un’esperienza di condivisione profondissima, contrappuntata da passaggi onirici tanto potenti da lasciare quasi spossati alla fine della visione.
E’ come se fossimo protagonisti del processo di creazione, quello di Rublev e quello di Tarkovskij, (di cui Andrej è alter ego) e ci rendessimo conto che la perfezione del Creato, la Grazia di Dio su tutte le cose del mondo fosse parte indispensabile di questo processo. “E’ peccato non usare un dono di Dio”, dirà il monaco Kirill ad Andrej Rublev in un momento centrale del film. E questo sarà il preludio alla riconquista della fiducia nella redenzione dell’uomo, soprattutto grazie a Boriska, altro inconsapevole strumento della Grazia di Dio attraverso la propria arte.

Si può affermare che tutto abbia inizio con un volo, nell’apparentemente slegato prologo. Un uomo vola, sopra una chiesa, in una mongolfiera. Davanti a lui un panorama mozzafiato: cielo, aria, terra, acqua; ma poco dopo l’incantesimo si spezza e l’uomo cade e muore. La scena sembra quasi suggerire che la prudenza e il timor di Dio (e non l’azzardo tracotante) siano l’unica risposta ai pericoli insiti nel passaggio da un mondo medievale, fatto di paura e oscurantismo, al mondo rinascimentale con la sua fiducia incrollabile nei mezzi dell’uomo. Ed è un mondo di violenza quello in cui si muove Andrei Rublev, un mondo in cui la gioia di un’impresa si scontra con la diffidenza e l’odio di chi non comprende e con l’inevitabile fallimento, perché la Russia del XV secolo è un luogo povero, buio, ingiusto e tanto violento. E non c’è, né può esservi, apparentemente, connessione alcuna tra chi osa e chi teme. Eppure Andrej Rublev, monaco e grande pittore di icone, talento acclamato, sa che cercare quella connessione tra la sua spiritualità e il popolo, il suo ‘pubblico’, è indispensabile perché la sua arte prenda vita e colore. Vivere l’umanità che si presenta ferita, miserrima e bestiale davanti a lui è un doloroso calvario al quale non può sfuggire. E nella sintesi tra fede e umanità, nel pianto liberatorio di Boriska che ha fuso una campana perfetta senza conoscere davvero il segreto della fusione, che Andrej capisce che può recuperare fiducia nell’uomo e compiere anch’egli il suo capolavoro artistico, pronto a passare il testimone alla generazione futura. La sua Trinità dell’Antico Testamento, accarezzata in ogni minimo dettaglio dalla macchina da presa di Tarkovskij nell’epilogo, magnificata nei suoi splendidi colori, sarà fulgido e glorioso segno della sintesi raggiunta.
Un uomo in una mongolfiera, un costruttore di campane e un pittore di icone. Tarkovskij sembra volerci dire che l’uomo deve morire, deve dissolversi nel suo lavoro, deve sacrificarsi e votarsi al silenzio, per farsi strumento di Cristo e lasciare traccia del suo amore sulla Terra nell’arte. Andrej Rublev segue con la sua presenza questo destino, il fluire naturale del tempo attraverso le stagioni, attraverso gli anni, attraverso la storia di un paese troppo vasto per essere compreso in un unico abbraccio, attraverso lo sguardo di un osservatore in viaggio su questo mondo che con pietas ascolta, osserva e impara. Le immagini si giustappongono e si rincorrono scolpendo il tempo, dilatandolo e contraendolo per far convergere verso un unico nucleo tematico queste tre figure: visionari, artisti, homines novi.

ANDREJ RUBLEV: UN’UMANITA’ ALLO SBANDO E LA SUA CENTRALITA’ NELL’ANDREJ RUBLEV
Tre monaci, Andrej Rublev, Kirill e Danill – quasi una Santa Trinità nelle pur evidenti differenze – sono còlti, lungo il cammino, da una pioggia torrenziale. Al giovane Andrej che vorrebbe ripararsi sotto una ‘giovane’ betulla, il maestro Danill intima di non farlo, “Non lo sai che non ci si ripara mai sotto un albero durante un temporale?”, forse perché, affinché un albero cresca forte, deve attraversare vento e tempeste senza esserne piegato. La betulla, simbolo di ripartenza fisica e spirituale, albero sotto cui non ripararsi nel primo episodio del film, troppo giovane, troppo esile e flessuoso, diventa invece luogo di rinascita e riconciliazione verso la fine, le sue foglie mosse dal vento fragili testimoni dei cambiamenti della Storia.
I tre troveranno riparo in un fienile, primo incontro con le ingiustizie della società, con la violenza dell’uomo e con un’umanità spiritualmente allo sbando. La lenta panoramica che svela i volti dei contadini nel fienile è accompagnata da una lamentosa voce femminile fuori campo mescolata al rumore della pioggia dall’effetto ipnotico e magnetico. Un buffone che irride i boiardi, le guardie del Gran Principe che lo portano via, la pioggia incessante e il tono della storia è stabilito.

Ventitré anni cosi nella vita di Andrej in cui la morte squassa i corpi ma al contempo libera le anime sotto forma di fumo leggero o di bianco latte che si perde nell’acqua che scorre nei fiumi, che scende dal cielo, copiosa lungo le pareti annerite dal fuoco o rigate di sangue innocente.
E in mezzo c’è la vita. Gli incontri con Teofane il greco il maestro, con Foma, il suo assistente ozioso, con la folle Santa che lo accompagna verso la Rivelazione, con il Gran Principe, con la bellissima donna che lo tenta durante un rito pagano. Nel suo rapporto con Foma e in quello con la Folle Santa, in particolare, si manifesta la grandezza spirituale di Andrej. La grande distanza culturale che li separa non impedisce ad Andrej di essere comprensivo e tollerante, capace di amare Foma perché umano, tema particolarmente caro ai russi, come tutta la letteratura di Tolstoj e Dostoevskij testimonia. Rublev rivela tutta la volontà cristiana di comprendere la fragilità umana anche quando la violenza dei Tartari, le loro torture dolorosamente esposte, le loro mutilazioni, rendono difficile provare pietà alcuna.

LE FIGURE FEMMINILI IN ANDREJ RUBLEV
Le figure femminili hanno un ruolo centrale nella formazione di Andrej. Nell’episodio “La passione secondo Andrej”, la neve copiosa del paesaggio russo rende quasi onirico il calvario del Cristo. Eppure la Maddalena che lo tocca con ardore quasi sensuale, cosi come la bambina che lo guarda ridendo – come se fosse consapevole della sua imminente resurrezione – donano alla scena un’umanità e una verità straordinarie. Se la figura della Folle Santa ha la essenziale funzione di strumento per farci comprendere l’ambivalenza del bene e del male – scappa con i Tartari, e questo è ciò che ci si aspetterebbe da lei, ma poi ricompare al primo rintocco della campana di Boriska vestita con abiti da vestale, radiosa e sorridente, rivelazione della totalità e dell’infinito – la bellissima donna pagana, nuda e attraente, tenta di sedurre Andrej con un bacio definendo l’Amore come ‘tutto uguale’ e non peccaminoso perché carnale. Lei è parte di un mondo basato su valori lontanissimi da quelli di Andrej, mentre la Folle Santa è parte integrante del suo mondo e ne condivide l’anelito spirituale. La festa pagana in cui incontra la donna pagana turba profondamente Andrej perché egli si rende conto che coloro che dovrebbe catechizzare sono lontanissimi da lui e i suoi messaggi non arrivano come lui li intende. È per questo che quando gli viene chiesto di rappresentare il giudizio universale con tutto il suo corredo di peccato e castigo, egli non vuole. E in un momento di rabbia, getta della vernice su una parete della chiesa creando degli schizzi che in parte ricordano le opere di Pollock: arte moderna che confonde ed estranea il fruitore, nell’ottica di Tarkovskij espressione auto riferita e masturbatoria dell’ego dell’artista, non latrice del messaggio che vorrebbe diffondere Andrej. La Folle Santa piange e si dispera, comprende che Andrej sta smarrendo la strada e funge quasi da monito vivente per l’artista.
Rublev dal canto suo, cerca di vivere come un semplice uomo di fede, incapace di provare orgoglio del suo talento, quasi incapace di riconoscerlo, troppo preso dall’essere testimone del male e del dolore del mondo; l’invidia di un amatissimo confratello, una lotta fratricida dietro la devastazione della città di Vlodomir da parte dei Tartari, la povertà che rende spavaldi e disperati, la violenza che genera violenza… la sua stessa primitiva umanità quando cerca di salvare la Folle Santa da uno stupro.

ARTE E CONCORDANZA DEI CONTRARI
L’arte è distrutta dalla violenza del potere fin dall’inizio del film: la cetra dello skomorokh, gli affreschi nella chiesa di Vlodomir, la bellezza dei riti pagani della fertilità, le minacce dietro la fusione della campana. Ovunque, nella Russia dell’Andrej Rublev c’è violenza e punizione. “Non posso dipingere cose che odio. Non posso terrorizzare le persone”, dirà Andrej a un manicheo Teofane che pensa che l’umanità sia malvagia per natura. Andrej, che può essere considerato un alter ego di Tarkovskij, ha fiducia negli esseri umani: riconosce che gli uomini commettono i peccati, i più crudeli, ma poi riescono a pentirsi e che gli ignoranti spesso peccano perché manipolati dai potenti, uno dei motivi per cui i russi sono in lotta fra di loro, fratelli dello stesso sangue e della stessa terra ma incapaci di amarsi e riconoscersi. Andrej si ribella a questa idea, non è in grado di dipingere qualcosa che trasmetta significati di odio e distruzione. Dio è amore, pietà e confessione.
Il tema dell’accordo dei contrari è centrale nel film. Nell’ultimo episodio, “La campana”, monaci, nobili e contadini sono tutti uniti nella realizzazione di una enorme campana. Solo quando la campana ha suonato allo stesso modo per nobili, mercanti, monaci e contadini e Boriska sopraffatto singhiozza tra le sue braccia, Andrej giunge alla piena realizzazione di quale sia la sua missione. È solo attraverso l’arte che si opera il vero riscatto del popolo russo. Rublev rompe il suo lungo voto di silenzio, seguìto al suo peccato, esclamando: “Che giorno di festa per la gente! Andremo via insieme, io e te. Tu suonerai campane e io dipingerò icone. Questo darà alla gente qualcosa da festeggiare”.
Noi, con Rublev, riusciamo finalmente a cogliere qualcosa dell’eterno significato della creazione e della capacità dell’arte di unire le disparità. Andrej apprende che l’artista “è un servitore che cerca perennemente di pagare il dono che gli è stato dato come per miracolo”. E l’unico modo per pagare questo dono è non stancarsi mai, ci volesse anche tutta la vita, di cercare relazioni armoniche tra gli uomini, tra arte ed esistenza, tra tempo e storia.

L’ha ripubblicato su Una Certa Ratio.
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