Makala, di Emmanuel Gras (FRA 2017)

di Andrea Lilli –

Makala in swahili significa carbone. Mentre il destino del nostro pianeta si gioca sul mercato internazionale di gas e petrolio, il combustibile che fa sopravvivere il giovane Kabwita Kasongo è il carbone vegetale, autoprodotto e trascinato al mercato locale su una bicicletta, lungo 50 chilometri di strade pericolose. Con la moglie Lydie e tre piccole figlie vive a Walemba, un villaggio come tanti nel Congo (ex Zaire: 92 milioni di abitanti) e sogna una casa larga e dignitosa, circondata da alberi, qualcosa di meglio di una capanna in mattoni. Anzitutto deve trovare i soldi per comprare quindici lamiere di metallo ondulato per fare il tetto. Eccolo dunque uscire dal villaggio all’alba: sulle spalle ha un’ascia e una zappa rudimentali, in mano una tanica d’acqua, in mente il tetto nuovo.

Non possiede motoseghe né altri mezzi meccanici. Con tenacia, le magre braccia affondano colpi nel legno per ore ed ore, finché abbatte un grande albero – almeno un metro di diametro -, ne seziona il tronco e i lunghi rami in segmenti che accatasta ordinati uno sull’altro. Lydie lo aiuta come può, amorevole.

Poi zappa il terreno intorno, con le zolle tumula la legna costruendo un forno di diversi metri cubi. La combustione completa durerà due settimane, ma dopo qualche giorno Kabwita può già cominciare ad estrarre carbone pronto per la vendita, spegnendo con l’acqua i frammenti ardenti più superficiali. Incredibile la quantità di sacchi che riesce a caricare e legare sulla bicicletta, sfruttando le due ruote come mezzo di trasporto di cose, anziché di persone.

Il viaggio con il carico di carbone sarà lungo e faticosissimo, ancora più della preparazione. Il mercato della città più vicina è a cinquanta chilometri, che Kabwita percorre a piedi spingendo il peso lungo sentieri sconnessi e strade polverose, infestate da taglieggiatori, percorse da automobili, matatu e camion incuranti dei pedoni. Uno di questi urterà la bicicletta parcheggiata, rovesciandola: qualche prezioso sacco si rompe. Un altro sacco verrà confiscato in un ‘posto di blocco’ da estorsori; in compenso, ci sarà pure qualcuno disposto a dare una mano disinteressata. Giorni e notti di questa via crucis, e il giovane arriva finalmente a vendere la sua merce.

Le trattative sul prezzo di vendita sono un altro lavoro, più sottile, in cui pure dimostra una certa perizia. Ciò nonostante, alla fine della fiera la somma ottenuta sarà largamente inferiore a quella sperata, e appena sufficiente per acquistare una sola lamiera, oltre a certe medicine per la figlia. La delusione per il risultato è grande, pari alla fatica dell’impresa: Kabwita cerca conforto presso una di quelle chiese fai-da-te dove i fedeli, eccitati da un predicatore improvvisato, si abbandonano in trance a preghiere disperate. Da qualche parte un uomo onesto deve pur trovare un senso, la forza di resistere, la speranza di un sostegno, quando resta solo di fronte a un sistema indifferente, se non ostile ai suoi bisogni.

Il film non è una fiction: nulla è inventato, gli attori interpretano sé stessi, nessuna scenografia è artificiale. Ma non è nemmeno un documentario: il regista ha scritto la storia e l’ha sceneggiata, per quanto pochi siano i dialoghi di questo road movie sui generis, ricco di rumori e suoni – quelli del villaggio, della natura, della strada, della bicicletta, dell’uomo, più gli inserti musicali – che insieme alle sole immagini portano a riflettere su come viva realmente su questo pianeta chi non faccia parte della minoranza benestante.

Il regista segue il protagonista con una camera a spalla discreta, che sembra invisibile ai non attori inquadrati, comparse comprese, e questo può essere solo frutto di un’estrema attenzione di Emmanuel Gras a non invadere, del suo rispetto per le persone riprese. Il suo stile non è quello solito dell’osservatore “dall’alto”, commiserevole e perciò dominante, ancora una volta coloniale. A conferma di ciò troviamo i paesaggi africani rappresentati in tutto il loro fascino di colori e in tutta la loro polvere aspra, i personaggi nella loro povertà quale è realmente, con i topi alla griglia e i vecchi poster con Drogba, ma senza estetizzazioni né cedimenti al ‘pittoresco’ da cartolina.

Makala ha vinto il Grand prix de la Semaine de la critique al Festival di Cannes 2017.


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