di Marco Grosso
Oggi, il 4 Aprile di 90 anni fa nasceva in Russia, a Zavrazh’e, uno dei più grandi geni del Novecento e, secondo molti cinefili e cineasti (tra cui il maestro Ingmar Bergman) il più grande regista di tutti i tempi, certamente quello che più di tutti ha saputo elevare il linguaggio del cinema alla sacralità della grande poesia. Tarkovskj è stato definito “il poeta del cinema”, eppure è riuscito ad andato ben oltre il cinema “poetico”, se si intende con questa qualifica non certo un genere (inesistente) ma quel cinema solitamente associato a certe vaghe “atmosfere” o tonalità “romantiche”, riferito alla pratica della poesia o a figure di poeti, ricorrente in varie forme a testi lirici o a espressioni della letteratura poetica.

Tarkovskj è stato il più grande poeta del cinema perché probabilmente ha saputo eccedere non solo l’aleatoria definizione di “cinema poetico” ma anche la più precisa categorizzazione pasoliniana del “cinema di poesia” (che Pasolini distingueva dal “cinema di prosa” e centrava non sugli elementi del romanzo classico e dell’intreccio narrativo ma sullo stile di ripresa e di montaggio del regista, sulla poetica visiva e immaginifica dell’autore, sul “come” si mostra più che sul “cosa” si racconta).
Nel corso della sua breve ma indimenticabile filmografia, Tarkovskj ha sperimentato un’inedita forma d’arte che potrebbe essere battezzata CINE-POESIA e che probabilmente è riuscito ad elaborare al massimo grado e in modo organico in due capolavori assoluti (Lo Specchio, del 1975, e Stalker, del 1979) e in diverse sequenze e sezioni presenti negli altri suoi 5 film (L’infanzia di Ivan, Solaris, Andrej Rublev, Nostalghia, il Sacrificio). La sua sintesi cine-poetica è un poetare per immagini-movimento, è il suo modo CINEMATICO di fare poesia. Nello stesso tempo è il suo modo POETICO di fare cinema, cioè un modo di fotografare-riprendere-troncare-collegare-montare le sequenze filmiche secondo un ritmo lirico-visivo interno, secondo logiche e strumenti compositivi propri della scrittura poetica. Le immagini-movimento del suo cinema, dal singolo fotogramma al ricorrente piano sequenza, fluiscono poeticamente e valgono per sé stesse, per quello che sanno svelare e ancor più per quello che sanno velare e custodire. Tali immagini, più simili a epifanie mistiche e ad enigmi visivi, non traggono la loro ricchezza di senso e la loro capacità comunicativa da una trama complessiva, dalla caratterizzazione dei personaggi, dai contesti socio-ambientali né dai simbolismi allegorici da decodificare, tantomeno da concetti astratti da spiegare a mezzo filmico, da messaggi e significati che le immagini-significanti si sforzerebbero di rappresentare e comunicare. Tali immagini parlano e valgono in se stesse per la loro capacità di “scolpire il tempo” (titolo di un saggio magistrale sul cinema da lui scritto), cioè di estrarre (per “arte di levare”) da blocchi informi di tempo reale che accade e che scorre (quelli registrati dalla macchina da presa) visioni, epifanie, enigmi, forme cine-poetiche capaci di rivelare e custodire il mistero della Vita che accade nella vita. Così Andrej eredita e traduce nel linguaggio di cui è maestro (quello cinematografico) il genio poetico del padre Arsenj Tarkovskj (forse il più grande poeta russo del ‘900). E non è un caso che l’opera della sua filmografia che più di tutti testimonia questa conversione del suo cinema di poesia in cine-poesia sia proprio Lo specchio, capolavoro assoluto in cui l’eco della poesia paterna si fa più incisiva e decisiva (insieme al ritratto della musa materna) e il suo intimo bisogno di ricostruire il suo vissuto personale e famigliare, poeticamente più che biograficamente, trova il suo travagliato compimento.

Se Lo specchio è forse il capolavoro in cui Tarkovskj ha portato alle estreme conseguenze l’intreccio fecondo tra la lingua della poesia e quella del cinema, è però in Stalker che raggiunge il suo apice espressivo, l’equilibrio perfetto tra tutte le sue componenti e istanze. Stalker è il film con cui il cinema di Tarkovskj si rivela più pienamente per quello che è e vuol essere: segreto accesso alla “Zona” del Sacro e approssimazione esistenziale ed estrema a quella soglia invalicabile della verità, soglia sulla quale l’uomo è rivelato a sé stesso e al mistero che è, alla vera miseria della sua condizione e alla grandezza della sua vocazione, vertiginosamente esposto al doppio abisso della salvezza e della perdizione. Soglia sulla quale il cinema di Tarkovskj non è più neanche solo poesia ma si fa preghiera, gesto di scrittura iconografica e contemplativa (è questo il senso ultimo del capolavoro del 1966 dedicato al più grande iconografo della storia russa: Andrej Rublev). Perché alla fine la sola misura del cinema di Tarkovskj è una smisurata preghiera sul ciglio dell’abisso, come il documentario Andrej Tarkovskj. Cinema come preghiera, realizzato dal figlio Andrej Arsenj Tarkovskj nel 2019, ha mirabilmente raccontato e testimoniato.
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