di Marzia Procopio
Non è chiaro cosa volessero fare Ferzan Ozpetek e Gianni Romoli scrivendo per D+ la serie ispirata al fortunato lungometraggio del 2001 “Le fate ignoranti”, a parte bissarne il successo replicandone le atmosfere e la filosofia di fondo: tornano così le terrazze romane di ambientazione borghese anche quando proprietari* sono artist* o cartomanti o fruttivendol*, l’asfissiante gruppo degli amici che sono un corpo e un’anima e fanno da coretto a tutte le vicende amorose di protagonisti e comprimari, i sentimenti ambivalenti e cangianti che vengono sempre ricompresi in una superiore accettazione delle debolezze dell’altro e del fluire inarrestabile delle cose.

Il tempo cambia tutto, ripete Ozpetek da vent’anni, e una grande terrazza piena di piante in un quartiere radical chic abitato da amici con appartamenti luminosi e confortevoli aiuta senz’altro di più a superare i lutti, le delusioni, gli inciampi della vita. Tornano le coppie gay, che in quelle case piene di quadri e luce sicuramente hanno pochi problemi di convivenza con il mondo esterno e con le famiglie, torna l’onnipresente Serra Ylmaz nel consueto ruolo di grilla parlante, si ripresentano l’amico frocia che parla di sé e degli amici al femminile, la single eterosessuale con problemi di dipendenza affettiva e, in primo piano, la strana coppia: Michele, che ha le fattezze statuarie di Eduardo Scarpetta (lui oggettivamente efficace nel tratteggio di un giovane uomo capace di lasciarsi trasformare dalle diverse forme dell’amore) ed è stato l’amante di Massimo, sposato e sul punto di confessare tutto alla moglie. Massimo ha il bell’aspetto di Luca Argentero, che purtroppo però fa il morto, essendo caduto, già nella prima puntata, dalla moto per averla guidata come un ventenne arrapato. Può così assumere il ruolo del narratore onnisciente alla Grey’s anatomy, che osserva, commenta, ispira e guida gli altri, e peccato che lo faccia con un sorrisone stampato sul viso e su uno sfondo di cartone colorato.

Pallida, dimessa, con iniziale vocazione da tappezzeria destinata a subire una trasformazione, Antonia, la moglie tradita di Massimo, interpretata da una Cristiana Capotondi sacrificata da capelli ingiustamente trascurati e sottotono nella recitazione. Suo il compito di attendere, comprendere, accogliere, e lentamente entrare nella Casa e nella vita di un marito che non aveva conosciuto mai. La madre è Carla Signoris, un’altra dama borghese che ben si muove nella improbabile casa di vetro nel bosco dove nessuna persona sana di mente abiterebbe, così esposta alla curiosità e alle aggressioni; qui Antonia e Massimo vivevano, con la colf filippina che piange il padrone o fa ridere con le sue uscite, un’altra serva buffa della borghesia che non riesce a convincere della sua utilità drammaturgica.

Ma i più imbarazzanti sono i siparietti degli “amici”, che punteggiano il racconto degli eventi con battute una più inopportuna e cafona dell’altra, “fate ignorantissime”, sostenute e rimandate da una musica altrettanto inopportuna, un costante “allegro” che stride con le vicende narrate e non consente il minimo approfondimento, lo svolgimento di una evoluzione psicologica, ma tutto fagocita nella concezione trascendente del regista turco: i sentimenti mutano, l’amore cambia nome e forme ma resta se siamo capaci di accettare l’impermanenza, le debolezze e le imperfezioni dell’amato, che si presentano sempre come infatuazioni, tradimenti, pettegolezzi.
Tutto cambia, quindi, tranne il cinema di Ozpetek, visto che in questa serie non sono pervenute né la pandemia con i suoi effetti disgreganti e devastanti anche sulle relazioni più profonde, sulle loro manifestazioni e sulla prossemica stessa, né tantomeno hanno dignità di presenza la mancanza di lavoro, la crisi economica, la scomparsa della classe media. L’assenza della povertà nell’orizzonte ideologico dei due show-runner Romoli-Ozpetek permette senz’altro di soffermarsi sulle dinamiche relazionali, ma conferisce – qualora ce ne fosse bisogno – una patinatura intollerabile e ormai immorale, perché fuori dal tempo, a questo prodotto. Oltre al già visto di caratteri e ambienti, a lasciare ulteriormente perplessə è la regia, che il regista turco naturalizzato romano affida per lo più a Gianluca Mazzella, caratterizzata da archi inutili, inquadrature senza senso con i droni su Roma, una inesistente direzione degli attori. Superficiale, consolatorio, già visto: buono per l’ennesima serata in cui rinunceremo ad andare al cinema o a guardare un bel film.
Ancora non capisco perché facciano serie tv su questi film
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Ma sarebbe anche accettabile, se fosse ben scritta e diretta…
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Ma non mi convince proprio una produzione che si basa un film di successo
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