di Laura Pozzi

Fin dalle prime inquadrature, Benny’s video rivela e impone la sua natura disturbante. I fotogrammi di uno scioccante video amatoriale, con al centro la raccapricciante uccisione di un maiale all’interno di un mattatoio vengono ripetutamente sbattuti in faccia allo spettatore. Le immagini, sottoposte a continui rewind, avanzano lentamente verso l’esecuzione stoppandosi nel momento in cui il proiettile mortale penetra nel cranio dell’animale. Dietro la sanguinaria super8 si cela il sadismo e lo sguardo malsano di Benny, ma dietro di lui riconosciamo quello più lucido e spietato di Michael Haneke. Realizzato nel 1992, il film secondo capitolo della “trilogia della glaciazione” si colloca tra Il settimo continente girato tre anni prima e 71 frammenti di una cronologia del caso realizzato nel 1994. Haneke, come ben sappiamo, non va per il sottile, la sua poetica gelida e tagliente come un iceberg porta necessariamente a scontrarsi con un cinema estremo, spesso feroce, basato su “azioni malefiche” compiute da individui apparentemente normali e per questo ancor più inquietanti.

Benny è un quattordicenne ossessionato dalle immagini. Vive isolato fra migliaia di schermi all’interno della sua stanza, vero e proprio arsenale visivo dove può manipolare, controllare e rivivere all’infinito una realtà continuamente filmata e riprodotta. Il suo sguardo è costantemente filtrato da un’inseparabile telecamera posizionata vicino la finestra con cui condivide ogni singolo momento di una monotona e raggelante esistenza in cui l’immagine diviene nutrimento essenziale nel colmare il vuoto affettivo scavato dall’assenza di genitori distratti, interessati anche loro (come vedremo successivamente) a costruire e cristallizzare un immagine che preservi il loro stato sociale. Benny non ha bisogno della realtà, non sa che farsene, necessita solo di una memoria permanente resa inossidabile dall’utilizzo del rewind. L’isolamento del ragazzo viene momentaneamente interrotto quando intercetta una coetanea intenta a fissare uno schermo esposto nella vetrina di una videoteca. Dopo aver scambiato qualche parola, la ragazza lo segue nel suo appartamento dove le viene mostrato il video del mattatoio. Alla domanda cosa si prova davanti ad una scena del genere, Benny non trova risposta , in fondo si tratta solo di un maiale. Ma per lui probabilmente non fa molta differenza visto che poco dopo lo stesso schema verrà replicato e filmato sulla giovane.

Dopo un accurato lavoro di ripulitura, nasconde il corpo nell’armadio, si rasa i capelli a zero e colpisce con un pugno un compagno di classe. I genitori vengono convocati dal preside, ma cosa peggiore assistono al video dell’uccisione della ragazza. Tuttavia è proprio in quel frangente che una storia già raccapricciante di per se assume contorni mostruosi rivelando l’ipocrisia di una morale effimera e corrotta. Per salvare le apparenze i genitori decidono di occultare il cadavere, spedire il ragazzo in Egitto e mettere a tacere l’accaduto. Ma non tutto andrà come previsto. E’ interessante notare come Haneke dissemini in quest’opera i semi del male ben riconoscibili nelle pellicole successive. La presenza di Arno Frisch nel ruolo di Benny e successivamente in quello di Paul in Funny Games è il filo rosso che lega indissolubilmente le due opere, riconducendoci immediatamente a qualcosa di familiare rendendo meno indigesta una visione che in alcuni momenti diviene insostenibile, come nella famosa scena della “ripulitura”, in cui il sangue della ragazza viene lavato via dal pavimento come latte versato sul tavolo. Associazioni e rimandi sono imprescindibili nell’estetica del regista austriaco, capace di lasciare volutamente la violenza fuori campo e permettere allo spettatore di proiettare sullo schermo la sua visione delle cose. In questo senso appare esemplare la scelta di filmare l’omicidio della giovane malcapitata da un’unica prospettiva, evitando qualsiasi sensazionalismo o ripresa shock.

Obbligati ad ascoltare le sue grida strazianti, il nostro terrore e disgusto si nutre dell’assenza di un’ immagine più che mai viva e presente nella mente. La violenza nel cinema di Haneke è un qualcosa che deve necessariamente restare fuori campo perché renderla protagonista servirebbe soltanto a svuotarla e privarla di un potenziale capace di destabilizzare lo spettatore. Non a caso i momenti più terrificanti non sono frutto di azioni più o meno cruente, ma di “soluzioni” descritte a parole. Il dialogo tra i genitori su come liberarsi dell’ingombrante cadavere, provoca davvero un brivido lungo la schiena. Questo perché nell’ascoltare il delirio di due esaltati non possiamo fare a meno di comporre immagini, elaborare dettagli, rievocare suggestioni. Ad una prima parte ostile e inaccessibile, Haneke contrappone una seconda in cui allenta la presa, lo spettatore può finalmente tirare il fiato per immergersi nel sole egiziano attraverso immagini in grado di restituire una parvenza di normalità. Inevitabile che la storia perda vigore risultando meno dirompente e incisiva che in precedenza. Tuttavia ciò che risulta sconvolgente in questo secondo lungometraggio girato esattamente trent’anni fa è la straordinaria attualità. Siamo nel 1992, un’era in cui Internet, gli smartphone e i social sono realtà inimmaginabili. Eppure Haneke ha già capito che quelle realtà condizioneranno non poco il nostro futuro, manipolando le nostre esistenze al pari di quelle immagini che Benny convertirà cinque anni dopo in diabolici funny games.
Il film è disponibile in versione originale sottotitolata in italiano su Arte.tv
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