di Girolamo Di Noto
“Nuje nun cuntammo niente din’t a tiempo e pace, ma si chi ce cummanna nun ce piace, nuje nun ce stamme zitte e aizammo ‘a voce” (Canto allo scugnizzo, di Eugenio Bennato e Claudio D’angiò

Cinema e Resistenza da sempre hanno costituito un connubio inscindibile: i tanti volti della Resistenza – quella attiva di chi prese le armi in pugno, partigiani, soldati che seguirono l’impulso della propria coscienza, quella silenziosa della gente che aiutava feriti, fuggiaschi, esponendosi a rischi elevati, quella dolorosa dei prigionieri, di chi rifiutò di collaborare – sono stati ampiamente rappresentati dalla settima arte, in nome di un obiettivo semplice ed essenziale: rinfrescare la memoria sull’importanza di ciò che ha potuto significare la strenua lotta per la libertà e la dignità dell’uomo.

Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, da questo punto di vista, è un’opera di straordinario impegno civile, che racconta l’insurrezione della città partenopea, dal 28 settembre al 1ottobre del 1943, contro la follia distruttiva nazista, la sollevazione di un popolo, spinto dallo sdegno e dal desiderio, di mettere fine alla violenza della guerra. Quattro giorni di una rivolta che liberò Napoli dagli occupanti già prima dell’arrivo degli alleati.

Nanni Loy costruisce un film sulla Resistenza venti anni dopo circa gli episodi realmente accaduti, con uno sguardo attento alle persone, cercando di restituire la spontaneità dei fatti, l’attenzione verso il documento storico, con un realismo che commuove senza cadere nel sentimentalismo. Con Le quattro giornate di Napoli il regista si avvicina per la seconda volta al tema della Resistenza.

L’anno prima aveva dato vita con Un giorno da leoni ad una galleria di ritratti emblematici di un gruppo di ragazzi che, dopo l’8 settembre, si univano ai partigiani nella preparazione di un atto di sabotaggio. La scelta non casuale di ritornare sullo stesso tema l’anno successivo era dettata dall’esigenza di sottolineare l’importanza di certi valori fondamentali per la costituzione della società come la solidarietà, lo spirito di sacrificio, l’altruismo.

Sono proprio questi i valori che sicuramente hanno costituito il terreno su cui è cresciuto lo spirito della Resistenza napoletana. Spontaneamente, senza un’organizzazione politica predefinita, senza parole d’ordine, ma solo spinta dalla paura e dal coraggio messi insieme, la città si ribellò. Loy riesce in maniera esemplare a mettere in risalto l’essenza dicotomica di Napoli, il contrasto tra il sordido e il solenne, il sacro e il profano, l’incapacità di organizzarsi disciplinatamente e la spontaneità dei movimenti, la libertà istintiva, l’astuzia nel sopravvivere e nell’aggirare il potente.

La grandezza di Loy sta nell’aver creato un affresco corale di vasto respiro che mescola grandi nomi del cinema come Gian Maria Volonté, Jean Sorel, Lea Massari, interpreti del teatro dialettale partenopeo come Pupella Maggio, Luigi De Filippo, Regina Bianchi, e volti anonimi in un racconto epico, al quale il bianco e nero conferisce la drammaticità della cronaca.

Non esiste nel film un personaggio che prevale sugli altri, non c’è una vicenda che si impone sulle altre. Di volta in volta ci si sofferma su un volto, un’azione, una storia per poi scorrere via. Uomini e donne ordinari escono per un momento dalla folla indistinta per poi essere nuovamente riassorbiti nell’anonimato. Contro i tedeschi incaricati da Hitler di ridurre la città fango e cenere si battono uomini, donne, vecchi e giovani, intellettuali e scugnizzi, femminielli, operai e borghesi: contro la furia distruttiva nazista imbracciano fucili, lanciano bombe, improvvisano barricate, reagiscono alle situazioni difficili adattandosi senza perdersi d’animo.

Contro un nemico meglio armato e organizzato emerge la compattezza e la vitalità di una città mai doma, che si ribella perché mossa da un sentimento di insofferenza, da una rabbia contro la guerra e perché desiderosa di riscatto. Le giornate di Napoli furono il preludio alla lotta di liberazione in Italia, ma quello che spinse i napoletani a ribellarsi fu soprattutto una forza interiore nascosta, un fuoco sotterraneo che ebbe modo di ravvivarsi soprattutto in due momenti toccanti del film: la fucilazione di un marinaio sulle scale dell’Università dinanzi ad una folla ammutolita e costretta ad applaudire e il rastrellamento degli uomini per la deportazione in Germania.
Da quel momento una passione contagiosa coinvolge un numero di persone sempre maggiore: il cittadino esasperato che va per strada e combatte, i ragazzi del riformatorio, capeggiati dal giovane Aiello, che imbracciano le armi perché sentono il bisogno di riscattarsi socialmente, il professore che scende dalla cattedra per fare la Rivoluzione, lo scugnizzo Gennarino Capuozzo – medaglia d’oro, a cui il film è dedicato – cresciuto troppo in fretta per la morte del padre, per la fame, che muore su una barricata.

Assistiamo alle gesta dell’eroico Pitrella (Aldo Giuffré), un soldato semplice che non vedrà mai il figlio appena nato, c’è Ciccillo (Luigi De Filippo) che muore senza mai aver realmente combattuto, c’è il capitano Stimolo (Gian Maria Volonté), la cui guida sarà fondamentale per dirigere le azioni di attacco contro lo stadio del Vomero assediato. E poi ci sono le madri che urlano, piangono, soffrono, cercano di salvare i figli, lanciano oggetti dai balconi sulla testa dei soldati, c’è soprattutto Regina Bianchi (la madre di Gennarino) che, sulle scale della Chiesa delle Cappuccinelle, abbraccia per l’ultima volta il figlio e gli fa mangiare quel poco che è riuscita a racimolare.

La ritroveremo in un’altra scena straziante mentre si aggira con il volto stravolto e lo sguardo mobile a frugare tra la gente riunita nel cortile di un ospedale nel tentativo di trovare il figlio scomparso: “Che sono state queste giornate per me…quante ne sono passate? Tre…ho perduto il conto della notte e del giorno…”. Le parole che la donna dice in dialetto richiamano il senso del tempo che nell’opera di Loy viene restituito con contorni vaghi. La data dell’8 settembre si legge in un manifesto che invita i napoletani a non farsi arrestare per poter mangiare gratis.

Al di là di quella indicazione temporale, nel film le azioni si susseguono come un unico fluire di fatti e battaglie. Loy, ricorrendo spesso alla macchina da presa a mano, si muove tra le macerie, si incunea nel dedalo di vie intorno a Piazza Carlo III, alla Sanità, Vico Rosario, Porta Medina. Accompagnati da una colonna sonora popolare e dolente come Tarantella tragica di Carlo Rustichelli, Loy ci porta dentro Napoli, dal quartiere del Vomero fino al Rettifilo, tra caserme prese d’assalto e case distrutte allargando lo sguardo su un’umanità varia e composita, sottoposta a fatiche e privazioni, unita per un unico obiettivo: la cacciata dell’invasore.

Privo di retorica e patetismi, il film di Loy, grazie ad un cast eccezionale e uno stile che ricorda il cinegiornalismo d’inchiesta, coinvolge ed emoziona e rimane ancora oggi un impeccabile documento storico, un atto d’amore verso Napoli, importante non solo perché richiama alla memoria un evento cruciale della nostra storia, ma anche perché ha saputo esprimere con efficacia la “napoletanità”, spesso inquadrata stupidamente come difetto, in un segno di civiltà, rivelando come “o’ ffuoco” sia stata un’arma indispensabile e in un certo senso decisiva per l’esito finale della vicenda.

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