Paura della paura, di Rainer Werner Fassbinder (Rft/1975)

di Girolamo Di Noto

In occasione dei 40 anni dalla prematura scomparsa, è giusto e alquanto doveroso rendere omaggio al più radicale e sradicato dei registi tedeschi: Fassbinder. Rispetto a Herzog o a Wenders, Fassbinder non sentì mai la vocazione al vagabondaggio e all’esilio. È stato forse l’unico a costringersi nel perimetro della sua autunnale Germania, a non sottrarsi al terribile abbraccio di questa madre pallida e ostinata, che è riuscita infine ad ucciderlo.

Fassbinder non si allontana da casa, ma non per questo resta fermo: è inquieto e – come i suoi personaggi – soprattutto donne – cerca il punto di origine della propria infelicità, del proprio disagio. “Voglio trovare qualcosa”, dirà sempre il regista e il suo desiderio di esplorare se non arriva a spiegare il senso della ricerca perlomeno ne mostrerà le conseguenze. “Ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo”.

Fassbinder ha sempre avuto una predilezione per raccontare la debolezza, la malattia, la sconfitta e nello stesso modo ha messo insieme dei personaggi che invece di avanzare sbandano, vittime di forze oscure contro cui combattere inutilmente, risospinti, come scrisse Enzo Ungari, “a prendere fiato, come pugili agli angoli, tra un round e l’altro”.

Tra i personaggi meglio descritti e forse meno noti del cinema di Fassbinder, va senz’altro menzionato quello di Margot, interpretato magnificamente da Margit Carstensen, nel film Paura della paura (Angst vor der angst) del 1975. Basato su una storia scritta da una casalinga di Bergneustadt, Asta Scheib, sceneggiato dallo stesso regista e girato per la rete televisiva tedesca Ard, il film è un resoconto quasi clinico di una donna sposata, madre di una figlia e in attesa di un altro in arrivo, che conduce una vita apparentemente felice ma che scivola progressivamente in una forte depressione.

L’angoscia di Margot non ha cause precise, la sua paura non è attribuita ad un avvenimento determinante. La forza del film sta proprio nel non dirci nulla: Fassbinder ci accompagna, passo dopo passo, verso l’alienazione di Margot, un’alienazione che trova terreno fertile tra la monotonia delle mura domestiche, nei rapporti non certo idilliaci con il marito Kurt, uomo semplice, onesto, ma troppo silenzioso e debole di carattere, nelle relazioni quasi al limite dell’astio con la suocera impicciona e la cognata ficcanaso che vivono al piano di sopra.

Fassbinder non vuole spiegare o motivare, ma semplicemente descrivere non tanto le ragioni profonde di un atteggiamento così negativo, quanto il lento affiorare dei sintomi del male oscuro che attanaglia la donna e della vertigine che scompiglia tutti i rapporti.

Donna sola, abbandonata ai propri problemi da chi la circonda, Margot è una sorta di alter ego del signor R., protagonista del film del 1969 di Fassbinder, “Perché il signor R. è diventato matto?”. Se in questo film Fassbinder non rinuncia a cercare dei meccanismi d’oppressione che possano aver causato il gesto insano di R. di impiccarsi come l’educazione severa in collegio, la mancanza di gratificazione in campo professionale, in Paura della paura Fassbinder descrive l’angoscia ma non si sofferma a spiegarla ma la racconta con sguardo freddo e implacabile, senza lasciare spazio alla commozione.

Non ci sono nel film crisi isteriche, scene drammatiche che rendono visibile la paura. Si mostra negli oggetti che si muovono in maniera irreale, negli specchi che deformano tutto ciò che lei vede con la paura negli occhi. Margot è costantemente fluttuante, nei primissimi piani del suo viso traspare il suo turbamento, nelle immagini che sfocano emerge la sua angoscia.

È un’inquietudine che cresce progressivamente ma ha anche delle pause; per alcuni momenti Margot si sottrae al disagio pensando di trovare un rimedio, credendo di prendere tempo: l’amore per la figlia, la musica di Leonard Cohen, una nuova pettinatura, la relazione con il farmacista sembrano distoglierla, allontanarla dall’angoscia ma sono solo pause, false illusioni che vengono cancellate dal sopraggiungere di immagini distorte, dal senso di inadeguatezza che ritorna, dal desiderio di vivere un’altra vita.

Margot cerca di vivere la propria vita, ma si sente estranea a se stessa, la vita che conduce non è la sua: gli specchi, così presenti nei film di Fassbinder, rivelano la crisi d’identità della protagonista. Guardandosi si chiede: “Sono io quella? Che cos’è? Sono io?”. La sua immagine riflessa fa aumentare vertiginosamente il disagio.

“Devi essere una brava donna di casa”, “Devi saper cucinare bene “, sono gli inviti ossessivi che le fanno la suocera e la cognata, ma lei comincia a percepire che sta interpretando un ruolo che non è suo, diventa consapevole che tutto ciò che vorrebbe essere non corrisponde alla realtà. Raggelata nella sua impossibilità di vivere, amare, trasformare la propria vita, Margot è inquieta, incarna una vita persa, privata della possibilità di esprimersi e di espandersi.

Nonostante il disagio che porta con sé prova a reagire ma nessun rimedio la aiuta: fa uso spropositato di Valium, alcool, si affida alle cure del farmacista ma subisce solo prevaricazione. “I miei film si occupano del fatto che la gente ha difficoltà nei suoi rapporti con gli altri”. Neanche questo film è esente da questo principio. Margot si fida del farmacista ma lei per lui è solo una donna fragile con cui approfittarsene. Vorrebbe restare con il dottore, iniziare una nuova vita, ma lui non è deciso e la sua esitazione la fa ritornare al suo punto di partenza.

Al di là del rapporto altalenante con i figli, sono solo due le persone che riescono a comunicare con Margot: vivono ai margini della società e sono Edda (Ingrid Caven), la paziente conosciuta in clinica, che seduta immobile a letto lascia trasparire dai suoi occhi spalancati la sua stessa paura e il signor Bauer, interpretato guarda caso dallo stesso attore che impersonò il signor R. (Kurt Roab), un vicino, anch’egli afflitto da una malattia nervosa. Si riconosce solo con chi è come lei. Per il resto è sola con le sue inquietudini e la presenza ossessiva degli specchi non fa che moltiplicare la sua identità dissociata, la sua immagine rifratta, spezzata.

Concentrando la sua attenzione quasi esclusivamente negli interni di una casa borghese, Fassbinder è straordinario nel disseminare nella sua scenografia simboli che testimoniano l’alienazione della donna, il suo sentirsi in prigione nelle mura domestiche. Lo stipite di una porta diventa così simbolo di clausura e isolamento, la finestra non inquadra ampie porzioni di paesaggio ma si limita a inquadrare un angusto scorcio rappresentato da un albero e una farmacia. Dalla finestra si vede spesso la cognata scrutare i movimenti di Margot, si incrociano sguardi, si interiorizzano amare verità. Gli specchi, testimoni silenti della crisi d’identità della donna, non rivestono solo una funzione scenografica, ma sono deputati a riflettere un’altra realtà, che è quella distorta dalle angosce di Margot.

Paura della paura resta un film notevole da riscoprire, un altro grande ritratto di donna non in pace con se stessa come Veronika Voss, Maria Braun, Martha, Effi Briest, resta un’autoanalisi spietata votata allo scacco, un’opera di grande cinema che non può consolare ma solo mostrare, con occhi sgranati, lo scontro tra l’impulso a vivere e l’orrore del mondo, dove si combatte qualcosa che forse è già perduto fin dall’inizio.

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