Tanti auguri, Sir James Paul McCartney!

di Rocco Panofski

Il binomio sul retro della copertina era McCartney-Lennon, poi divenne Lennon-McCartney, marchio di fabbrica di tutti gli album degli scarafaggi; poi arrivarono le liti e le rivendicazioni su chi avesse effettivamente scritto questa o quella canzone. Nel mezzo Sir Paul ha scritto lettere d’amore come “All my loving”, messo in musica la poesia di “And I love her”, incrociato una donna per strada e creduto all’amore a prima vista in “I’ve just seen a face”. A un certo punto, e chissà perché, ha iniziato a prendere lezioni di francese e, siccome tutto poteva finire in una canzone, se ne uscì con “Michelle”. Una mattina si svegliò, andò al piano e cominciò a strimpellare “scrambled eggs, oh my baby how I love your legs”. Andò in studio e la fece ascoltare a George Martin e a John Lennon, sicuro fosse una vecchia e famosa melodia del passato. Fu John a dirgli che non era così, mentre George perfezionava l’arrangiamento delle uova strapazzate che diventarono “Yesterday”. Paul si era svegliato una mattina e aveva scritto la canzone con più cover nella storia. Una radio americana conferiva in quegli anni un premio speciale all’artista il cui brano fosse passato in radio un milione di volte nell’arco dell’anno: in molto meno tempo “Yesterday” arrivò a sei milioni e, fosse uscita in questi anni, avrebbe fatto saltare i contatori di YouTube e Spotify. “Why she had to go, I don’t know: she wouldn’t say”: Paul aveva scritto la prima canzone sul ghosting e non lo sapeva. Poi arrivò la copertina psichedelica di “Revolver” e lui impreziosì quel disco con l’amore totalizzante di “Here, there and everywhere”, che ha sempre detto essere la sua canzone preferita. Era per Jane Asher, la sua fidanzata dell’epoca, eppure l’amore con lei finì, forse già stava finendo mentre lavorava a quell’album, visto che vi trovarono spazio anche la tristezza e le lacrime di “For no one” e, soprattutto, la più grande canzone sulla solitudine mai scritta, quella con la povera Eleanor Rigby e Father McKenzie. Se Eleanor Rigby era un nome su una lapide del cimitero di Liverpool, il parroco avrebbe dovuto chiamarsi Father McCartney, poi ci pensò l’elenco telefonico a cambiargli il cognome. Da dove viene, la gente sola? A nessuno interessa e nessuno lo sa, quel che è certo è che finirà in una tomba senza fiori, dopo un funerale senza parenti celebrato da un prete che la notte prima ha rattoppato i calzini e un’omelia posticcia. E poi, e poi, e poi, canterebbe Mina… E poi ci fu il colpo di genio, l’ennesimo, durante un viaggio fra la Francia e il Kenya: il concept-album, la banda dei cuori solitari, lo star meglio ma chi ci crede di “Getting better”, il riempire i buchi di “Fixing a hole”, l’inflessibile “Lovely Rita”, un fatto di cronaca finito su tutti i giornali e diventato la splendida “She’s leaving home”; “bye bye”, aggiunse Lennon nel testo. È strano come si pensi comunemente che Paul scrivesse solo inni all’amore e alla felicità, quando invece era forse quello, dei quattro, più immerso nella nostalgia, nella solitudine, nella paura che tutto finisca: “mi amerai ancora, quando avrò sessantaquattro anni?”, chiedeva, mentre impreziosiva la parte centrale di “A day in the life” con la cronaca feroce, scarna e puntuale della mattina di un ragazzo solo, che ha solo una sigaretta per non pensare. Andò in California, a casa di Brian Wilson, uno che curiosamente è nato due giorni dopo di lui, e gli suonò al pianoforte alcune canzoni dell’album del Sergente Pepe. Fu lì che iniziò la depressione di Brian, con la cancellazione di “Smile” e tutto quello che ne conseguì. La fine era vicina anche per i Beatles, Paul lo capì prima di tutti, sentendosi solo come lo scemo sulla collina che guarda il sole tramontare, magari ripensando all’infanzia in Penny Lane, nelle sue orecchie e nella sua testa. Ma l’acme era ancora di là da venire. Ci fu l’India e con l’India “Back in USSR”, la vita che continua di “Ob-la-di Ob-la-da”, “Martha my dear” dedicata al suo cane, “Blackbird” e l’incontro con Linda celebrato in “I Will”, e persino durante la registrazione di questo inno all’amore ebbe la voglia di strimpellaere “can you take me back where I came from?”, che poi finì in coda alla ninna-nanna lennoniana e dark di “Cry baby cry”. Andò a un concerto degli Who e disse a Pete Townshend “ora vado a casa e scrivo qualcosa di simile a quello che fate voi, ma migliore”: se ne uscì con “Helter Skelter”, così dura che Ringo urla “I’ve got blisters on my fingers!” dopo averla suonata. “Helter Skelter” era anche l’ennesima prova della grandissima vocalità di Paul, che vide due scimmie scopare per strada e scrisse “Why don’t we do it in the road?”: due versi e un sacco di acuti per farsi beffe di chi pensava sapesse scrivere solo cose melense e di chi non si aspettava che il bravo ragazzo aveva una voce maestosa. Quella vocalità tornerà sempre, in “Oh! Darling” come in “She Came In Through the Bathroom Window” e, soprattutto, in “Golden slumbers”: quell’acuto su “sleep” prima del ritornello, gesù: nessuno è mai riuscito a rifarlo. Così come nessuno, o quasi, è stato così bravo a suonare così bene così tanti strumenti. Era già intento ad attraversare “Abbey Road” insieme agli altri, con tutto il peso della band sulle sue spalle (“Boy, you’re gonna carry that weight, carry that weight a long time”), ma prima aveva fatto in tempo a sognare sua madre, un’infermiera morta troppo giovane, che gli diceva “lascia che sia” e allora “Let it be” e “John, suoniamo qualcosa insieme” e così “Two of us” e “I’ve got a feeling” e sembravano tornati i tempi migliori, quando Paul esortava Lennon dicendogli “Forza, John: scriviamo una piscina”, lasciando intendere che il loro prossimo singolo gli avrebbe fatto guadagnare abbastanza soldi da comprare appunto una villa con piscina. E invece stava finendo tutto, la baracca crollava e nemmeno le sue spalle bastavano più, e allora la nostalgia e “The long and winding road” e torna, ti prego, “Get back” scritta in cinque minuti, e torna, ti prego, ma niente torna, nessuno si volta indietro, non c’è abbastanza colla per tutti quei pezzi, niente si tiene, niente torna. Poi gli album solisti, i Wings, Linda, oh Linda: “Baby, I’m amazed at the way you love me all the time and maybe I’m afraid of the way I love you” e la colonna sonora da Oscar di “Live and let die”. E Linda e ancora Linda, così belli insieme, e altri dischi e premi e onorificenze e quei capelli sempre più belli, nessuno che avesse mai davvero notato quanto fosse fico. E nessuno che si fosse accorto di quanto avesse ragione: se ne vanno tutti, in un modo o nell’altro, e che dolore sopravvivere; sopravvivere a John, a Linda, a George. Che dolore il risposarsi, scrivere e suonare ancora, fare altri figli, vivere cento vite e nemmeno wikipedia ti sta più dietro e dice che sei “un cantautore, polistrumentista, compositore, musicista, produttore discografico e cinematografico, sceneggiatore, attore, pittore, poeta, scrittore e attivista britannico”, gesù: manca il fiato solo a leggerlo, e infine arrivare a ottant’anni e forse sentire che quel Father McKenzie di cui avevi scritto quando di anni ne avevi ventiquattro sta diventando sempre più il Father McCartney della versione iniziale. “Alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dài”, scrisse nell’ultimo verso dell’ultima canzone dell’ultimo album dei Beatles; chissà se ancora ci crede, chissà se è vero. Se le sue canzoni fossero l’unità di misura dell’amore dato e ricevuto, direi che nel suo caso sia vero.
Auguri, Sir James Paul McCartney.
“Can you take me back where I came from
Can you take me back?
Can you take me back where I came from
Brother, can you take me back?”

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