di Girolamo Di Noto

Nel cinema contemporaneo statunitense, se c’è un cineasta originale che da sempre ha espresso uno stile e un linguaggio personali, senza aver bisogno di ricorrere agli effetti speciali, inventando un mondo con le sue atmosfere, i suoi colori, il suo respiro, questo è senz’altro Wes Anderson.
L’originalità del regista texano si caratterizza attraverso una potente fantasia visiva, la presenza di personaggi strampalati, eccentrici e la scelta di affrontare temi fondamentali come la famiglia, l’adolescenza, il desiderio e la sessualità, i rapporti tra gli individui con un umorismo scanzonato e amaro, lontano dai luoghi comuni e le risposte più ovvie.

Rushmore, ad esempio, ignora gli stereotipi dei film di ambiente scolastico sul passaggio dall’adolescenza all’età adulta: la storia del quindicenne Max Fischer (Jason Schwartzmann), talento dispersivo e indisciplinato, incapace di incanalare le proprie doti nel tradizionale cursus scolastico, è raccontata con delicatezza e senza consolazioni, con uno stile che scardina le regole della commedia collegiale e soprattutto è espressa al meglio perché regge su personaggi disadattati, che sembrano troppo maturi e al tempo stesso troppo infantili, attoniti e straniati che danno vita a situazioni disordinate, malinconiche e burlesche.

Nella vita di questo intelligentissimo, iperattivo ragazzo entrano in particolare due personaggi: il ricchissimo ma depresso Herman Blume (Bill Murray), industriale e benefattore della Rushmore Academy, e Rosemary Cross (Olivia William), una giovane insegnante vedova di cui entrambi si innamorano. Il primo è un uomo di mezza età, in crisi con la moglie, che ha due figli palesemente scemi, dei quali si vergogna. La seconda non ha ancora elaborato il lutto. Entrambi sono subito colpiti dalla genialità di Max e il ragazzo stesso comincia a frequentarli, mosso dalla stima verso l’imprenditore e dall’amore per l’insegnante.

Da questo triangolo scaturiscono diverse situazioni che si possono inquadrare nel più classico conflitto edipico. Max, che ha perso la madre da alcuni anni, soffre per l’amore – palesemente impossibile – che nutre per l’insegnante, la quale a sua volta è amata da Blume, che ha assunto nel frattempo le funzioni di padre sostitutivo del ragazzo.

La straordinarietà di Anderson sta nel modo in cui descrive queste figure irrisolte, questi personaggi mai cresciuti, perennemente in cerca di se stessi, che si trovano a fare i conti con infanzie difficili, lutti non superati, mancanze affettive, stati depressivi. Personaggi dalla spiccata intelligenza che trovano un appagamento non nel seguire una strada già segnata e percorsa da tutti, ma nel percorrere sentieri insoliti e poco battuti o nel ricreare universi paralleli, gli unici in cui possano contenere storie con un lieto fine.

Max sogna ad occhi aperti, organizza eventi, ha una grande passione per il teatro – primo grande amore giovanile di Anderson -, più che studiare seriamente per alzare la media dei voti e non farsi espellere dal college, si dà da fare a realizzare regie di opere inedite e grandi classici del passato per fare colpo sull’insegnante, ha una passione ed è sincero nei sentimenti, non si scoraggia nonostante si invaghisca di una donna che ha vent’anni più di lui. Ha mania di grandezza e la sua lotta con il contendente ha un che di farsesco.

Il personaggio interpretato da Bill Murray è un bambinone, un eterno Peter Pan. L’aspetto burlesco ma anche triste della vicenda sta nel fatto che Blume avrebbe bisogno lui di avere una guida e paradossalmente sembra più Max maturo e serio che lui. Se il ragazzo è seriamente intenzionato a stare con lei, al contrario Blume è timido come un bambino soprattutto nella sequenza in cui spia di nascosto l’insegnante da dietro un albero e quando poi è costretto a parlarle la saluta e se ne va di corsa. Sono entrambi infantili quando invece si fanno i dispetti a vicenda al punto che Rosemary arriva a rivelare sconsolata a Max: “Tu e lui siete uguali, siete bambini!”.

Nel film di Anderson si sorride per le situazioni irreali, grottesche, ma si guardano le scene anche con malinconia perché ci si rende conto che spesso certe decisioni, prese dai personaggi, per quanto possono sembrare agli occhi degli spettatori, originali o comiche, non sono prive di conseguenze e spesso sono gli stessi personaggi a farne le spese.

Una scena indicativa vede protagonista, ad esempio, Max che si fa cacciare dal college per aver tentato di far costruire un’immensa vasca per pesci tropicali in mezzo ad un campo sportivo, facendo di testa propria. Rushmore è quasi una storia fiabesca e delicata, una commedia bizzarra, minimalista calibrata su personaggi che non hanno ancora gli strumenti adatti per raggiungere i propri scopi o ancora alla ricerca di se stessi, persi nella monotonia della vita.

Accompagnati dalle note di canzoni degli anni Sessanta e Settanta come quelle di Cat Stevens, John Lennon, i Kinks, gli antieroi di Anderson vanno alla ricerca di un posto nel mondo, reinventano nuovi rapporti a partire dai fallimenti del passato, dando vita ad un film che supera i cliché del genere, inquadrandosi in un’opera in cui ironia, nostalgia e minimalismo si fondono insieme, proprie di uno stile visionario che renderà unico l’universo di questo regista.

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