di Fabrizio Spurio
“E’ mezzanotte, è già Ognissanti…”

Fulci aveva concepito questo film come una summa di tutti gli orrori rappresentabili. All’inizio si sarebbe dovuto chiamare semplicemente “Paura” ma la produzione, forte del successo del precedente film del regista “Zombi 2”, impose di aggiungere la seconda parte nel titolo così da dare l’idea di un sequel del film precedente. In realtà i morti viventi di questa pellicola sono diversi rispetto al classico zombi: sono più dei fantasmi che appaiono e scompaiono aggredendo i viventi. Sono dei cadaveri con il volto ricoperto di carne sanguinolenta, piagata e verminosa. La loro apparizione è una condanna per le vittime, perché non c’è speranza di fuga.
L’ispirazione per la pellicola proviene dai racconti di Lovecraft e di Poe, due scrittori molto amati dal regista, ma anche dall’autore teatrale Antonin Artaud, che lo influenzerà anche nella realizzazione dei due film successivi “L’aldilà” e “Quella villa accanto al cimitero”, andando così a creare una sorta di trilogia della morte. La crudeltà in questa pellicola è insistita. Le morti a cui vanno in contro i protagonisti sono spietate e dolorose. Le vittime vivono il tormento del supplizio istante per istante. La violenza grafica delle scene pone questa pellicola tra le vette del cinema splatter/horror italiano. Le teste vengono violate, sfondate, i cervelli ridotti in poltiglia, una vittima, interpretata da Daniela Doria, arriva a vomitare i propri intestini in una scena divenuta di culto. Ma non è solo la violenza il fattore centrale dell’opera. Questo film permette a Fulci di creare un incubo perfetto. E come tutti gli incubi la logica perde di senso nella trama. In effetti non c’è una vera e propria storia. Il film sembra un susseguirsi di eventi allucinanti, incastrati l’uno dopo l’altro senza un vero sviluppo narrativo. Tutto può accadere in qualunque momento. Sandra (Janet Agren) trova un cadavere in cucina, poi il corpo sparisce. Lo spettro del prete maledetto, che con la sua morte ha aperto le porte dell’Inferno, appare a due innamorati (uno dei due è un giovanissimo Michele Soavi, futuro regista horror, mentre la ragazza è la già citata Daniela Doria), ed il semplice fissarli negli occhi decreta la loro morte atroce.

I quattro protagonisti, chiusi in casa per discutere dei fatti successi nel paese, vengono aggrediti da una pioggia di vermi che, da una finestra, invade letteralmente la stanza in cui si trovano. Una scena allucinante in cui un vento folle getta milioni di vermi sui quattro sfortunati. Gli specchi del bar si spaccano da soli, si aprono crepe nei muri. Frammenti di carne putrefatta appaiono in vari posti. Un becchino, che vuole rubare i gioielli ai morti, viene morso alla mano da un cadavere che non vediamo. Una finestra esplode e i vetri si conficcano nel muro di fronte, facendo sgorgare sangue dalla parete. La protagonista della pellicola è Mary (Katherine MacColl, attrice che ritorna anche in “L’aldilà” e in “Quella villa accanto al cimitero”), una sensitiva che durante una seduta spiritica ha la visione di un prete, padre Thomas (Fabrizio Jovine) che si suicida impiccandosi nel cimitero di Dunwich. Durante la visione Mary cade a terra morta. Viene sepolta. Un giornalista, Peter Bell (Christopher George), che indaga sulla morte della donna, va al cimitero sulla sua tomba, ancora aperta. Sente provenire delle urla da dentro la bara e capisce che Mary è stata sepolta viva. Con un piccone inizia a colpire il coperchio della bara, ma rischia allo stesso tempo di uccidere inconsapevolmente la donna, perché ad ogni colpo la punta del piccone si ferma a pochi centimetri dal volto di Mary. E’ una scena costruita perfettamente, dove la tensione sale a livelli altissimi. Fulci fa vivere allo spettatore la condizione del sepolto vivo, ci mostra Mary disperata che cerca di aprire la bara, graffia con le dita il coperchio di legno, lacerandone la fodera imbottita e facendo sanguinare le punte delle dita. Poi la paura di essere uccisa dal piccone che invece dovrebbe salvarla. Un dichiarato omaggio al racconto “La sepoltura prematura” di Edgar Allan Poe. Liberata dalla bara decide di partire per Dunwich insieme a Peter, e cercare di capire come fermare il male che sta dilagando nella cittadina.

A Dunwich, nome dichiaratamente lovecraftiano, il male dilaga senza limiti. L’idea di questa minaccia che dilaga nel paese è data dalla nebbia che sembra una presenza viva nella cittadina. Il paese sembra un luogo disabitato, immerso in una notte perenne, non c’è una vera alternanza di mattina e sera, in ogni momento sembra che il tempo possa scorrere a suo piacere. Ma è sempre la notte l’origine della minaccia. I personaggi che vagano per le strade sono seguiti da un senso di minaccia costante. Oltre alla musica, composta da Fabio Frizzi, particolare rilevanza hanno i rumori notturni. Il male non si vede, ma si sente, l’aria sembra essere invasa da creature invisibili, risuonano spesso le grida di uccelli notturni, come se si volessero prendere gioco degli incoscienti che vanno in giro per le strade desolate. Quando un personaggio esce di casa sembra essere automaticamente in pericolo. Ma è chiaro che neanche in casa si è al sicuro. Il piccolo John (Luca Paisner), telefona terrorizzato a Gerry (Carlo De Mejo) e Sandra dicendo che la sorella appena morta, Emily (Antonella Interlenghi) ha ucciso i genitori al piano di sopra.
Fulci non risparmia neanche una critica ad una mentalità bigotta e semplicistica che porta all’equazione diverso = mostro. Bob (Giovanni Lombardo Radice), un ragazzo disadattato del paese, conosciuto da tutti per le sue turbe mentali (fa l’amore con una bambola gonfiabile in un casale abbandonato), viene subito accusato per le morti che stanno colpendo Dunwich. In realtà è innocente, ma per i padri e i meriti del posto è sua la mano assassina. Come già visto in una scena analoga de “Non si sevizia un paperino” (li era una donna, sedicente fattucchiera, la vittima della mentalità retrograda del paese), il popolo decide di farsi giustizia da solo. Un padre, scoperto Bob chiuso in un garage con la figlia, ma in realtà i due stavano solo parlando, decide di uccidere il ragazzo, di giustiziarlo per fargli pagare colpe che in realtà non ha.

Questo omicidio riporta alla mente quello analogo di “Zombi 2” per costruzione della sequenza e della violenza. In quel film Olga Karlatos subiva a menomazione di un occhio con una scheggia di legno, in questo Bob viene spinto contro un trapano elettrico. E’ questa la scena che, meglio di tutte, descrive quella crudeltà che era il marchio dei film di Fulci. Bob, steso su un tavolo e tenuto immobile dall’uomo, vede avvicinarsi lentamente la grossa punta rotante del trapano. Fulci alterna, con un uso sapiente del montaggio, il punto di vista di Bob con quello della punta del trapano. Dilata i tempi della tensione, rendendo il supplizio, sia per Bob che per lo spettatore, un’intollerante attesa dell’orrore che Fulci sta per riprendere con la sua impietosa macchina da presa, e che sappiamo ci verrà mostrato in tutto il suo devastante orrore. Gli effetti speciali di Giannetto De Rossi sono impeccabili, estremamente realistici e impressionanti.
Il finale vede i tre protagonisti, Mary, Gerry e Peter, scendere nella cripta di padre Thomas per cercare di sconfiggere il male. Inaspettatamente Peter viene ucciso, sottolineando così il fatto che in questi film tutto può succedere, e non si può dare per scontato che quello che si pensava essere il protagonista, debba sopravvivere.
La scenografia di Antonello Massimo Geleng, ricrea una cripta che potrebbe essere lo specchio di un aldilà fatto di pietra e ossa. Le pareti sono incastonate di scheletri, e luci dai colori azzurri, illuminano la scena precipitando i sotterranei in una sorta di irrealismo, ancora più marcato di quanto lo era la città di Dunwich con le sue nebbie ed i suoi fasci di luce notturna. A parte pochissime parole, esclamazioni, questo passaggio finale è totalmente sottolineato dalle belle musiche di Frizzi, in un connubio di musica/immagine estremamente azzeccato. Il male sembra sconfitto. Mary e Gerry escono dalla cripta di padre Thomas. E’ giorno. Fuori li attende il piccolo John. Li vede, corre verso di loro. I due sorridono vedendolo. Ma un’espressione di terrore si dipinge sui loro volti. L’immagine di John che corre verso di loro si blocca in un fermo immagine per poi frantumarsi in un nero assoluto. Questo finale distrugge l’idea dell’happy end.
Forse il male non è stato sconfitto, forse la porta dell’Inferno è rimasta aperta, anche se padre Thomas è stato distrutto. Fulci vuole che lo spettatore non sia tranquillizzato dalla visione della sua opera, vuole che sia turbato, scosso. E per fare questo decide di eliminare il finale consolatorio classico di questi film. Il tema dei bambini come simboli di un’infanzia inquieta e inquietante ritornerà in diversi film del regista, ed era già presente in “Non si sevizia un paperino” dove è forte l’idea di bambini non propriamente innocenti, come si potrebbe pensare. In “Paura nella città dei morti viventi” John diventa il simbolo di questa rappresentazione negativa dei bambini, addirittura spingendo lo spettatore a pensare che lui sia diventato, a sua volta, quella porta che il male utilizzerà per arrivare sulla Terra.
In realtà questo finale è stato creato in sala di montaggio. Durante il controllo del materiale Fulci ed il montatore Vincenzo Tomassi, si accorgono che durante questa ripresa, sia Katherine MacColl che Carlo De Mejo, per qualche motivo ignoto, cambiano la loro espressione da un sorriso ad uno sguardo decisamente preoccupato. Fulci e Tomassi decidono allora di lasciare questo “errore” di ripresa, e sfruttarlo per un finale sicuramente più ambiguo e di effetto.
Questo film vinse il primo premio al Festival del Fantastico di Avoriaz del 1980. Fu con questo Film che Fulci fissò gli stilemi del suo cinema fantastico: un cinema fatto di orrore puro, senza nessun compromesso.

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